Nel mondo letterario – non meno che in quello filosofico e ancor più in quello scientifico – si rende evidente una certa modalità della conoscenza, a cui i nostri studenti vanno introdotti.

Lo scrittore, poeta o narratore che sia, certamente inventa e creativamente dà forma a un mondo di carta, una realtà di finzione, ma, pur tuttavia rivela una strada conoscitiva nei confronti del mondo e dell’io. Lo fa proponendo all’interno della sua opera (nelle figure dei personaggi e nelle azioni narrative presenti nell’opera) e ridestando all’esterno (nello studente lettore, ma anche nell’autore stesso – che proprio per questo scrive) sentimenti, emozioni, angosce, disagi e disperazioni, gioie e turbamenti: cercando nel profondo della persona, insomma, e sollecitando quella vibrazione nascosta o addormentata senza la quale non si conosce nulla, se non in modo formale e superficiale.



La nostra mentalità è terribilmente figlia di un’impostazione illuminista – positivista (per meglio dire: di un illuminismo e di un positivismo “deteriori”, “integralisti” oserei dire) della capacità conoscitiva della ragione umana, per cui diventa difficile rendersi conto che anche i nostri moti più intimi, le nostre ombre più nascoste, i nostri sentimenti e i nostri disagi non rappresentano una dimensione irrazionale e fuori da ogni oggettività, ma fanno pienamente parte di ogni serio e profondo percorso teso a cogliere l’essenza delle cose e del mondo.>



Per noi l’umano è quasi un ostacolo, una complicazione, un intralcio: meglio se non ci fosse. Tanto è vero che il nostro disagio, la nostra insoddisfazione, la nostra tristezza, la nostra noia sono cose da eliminare oppure da trascurare. Oppure sono – ancora peggio – uno scandalo: “Ma come mai sono ancora così? Come mai in me c’è ancora questa insoddisfazione, questa tristezza?” (Julian Carron).

E ci sembra che questo umano sia come uno scoglio da superare; tanto è vero che pensiamo che prima dobbiamo sistemare questa nostra condizione e forse, poi, possiamo incominciare davvero a conoscere. Nel modo di guardare il nostro umano, concepiamo tutti i segni (il disagio, l’insoddisfazione, la tristezza, la noia) come limiti da sistemare o da evitare.



Di cosa sono segnali questi sentimenti che proviamo? Essi non sono una stortura del nostro sistema conoscitivo, ma indicano con chiarezza la natura del nostro io. Noi proviamo vergogna della nostra gioia o della nostra tristezza, dei nostri disagi o delle nostre sensazioni di vuoto, tutti questi sarebbero segni di qualcosa che non va, quando in realtà essi rappresentano lo strumento prioritario che ci introduce alla profondità del reale, sono il segno della nostra grandezza. Non sono anomalie, come tante volte pensiamo, non sono malattie da guarire con i farmaci (come sempre più accade, confondendo le inquietudini e le emozioni con gli stati d’ansia o il panico).

Le emozioni sono come allontanate dal mondo di certa filosofia: soprattutto in Kant, esse rappresentano il segno di una debolezza che entra in conflitto con gli orizzonti colmi di certezza della ragione misuratrice di tutto.

La letteratura, in particolare l’immagine poetica (la metafora) che troviamo in essa, fanno pace invece con questo mondo dell’indicibile: scrive il poeta tedesco Clemens Brentano che “la follia è la sorella sfortunata della poesia”. Non c’è mondo dell’anima che sia separato dal mondo delle immagini. Noi siamo spaventati – parlo di “noi” come uomini moderni, come uomini che vogliono giungere alla conoscenza – dalle emozioni, dall’indicibile, dall’angoscia (come anche dell’eccessiva gioia, s’intende). Dovremmo invece spaventarci – perché sarebbe segno di immobilità e di morte – dell’indifferenza e dell’assenza di “sentire”.

Afferma il neuropsichiatria Eugenio Borgna nella presentazione del suo saggio Le emozioni ferite: “La ragione di Kant è nella nostra cultura paragonabile a un incrociatore che passa tra la tempesta delle emozioni” e di esse non sente il flutto vitale e la capacità rigenerante. Siamo figli di questa definizione di razionalità.

Passiamo ai poeti: Leopardi. Egli è il più grande nel comprendere l’importanza che ha per l’uomo il “commercio coi sensi”, cioè il rapporto con il sentire, il mondo quindi dei sentimenti e dell’affectus.

Cos’è l’emozione, cos’è il sentimento nella poesia di Leopardi? Per il poeta di Recanati è la persuasione appassionata che rende feconda una verità acquisita; che fa sì che una percezione convinta non resti inerte, ma spinga a un dinamismo. Si può accertare una verità grazie a una dimostrazione o osservare un dato oggettivo e incontrovertibile. Ma se la percezione pur certa non suscita nessun sentimento, il soggetto resta fermo, indifferente. Se invece suscita un sentimento, il soggetto si muove, fa passi ulteriori, inizia un cammino di conoscenza sempre più profonda. “Guai se la ragione non si trasforma in passione” affermerà più volte il poeta. Quanto è valida questa affermazione se pensiamo ai nostri studenti!

Egli scrive, ancora, nello Zibaldone:“Non basta intendere una proposizione vera, bisogna sentirne la verità. C’è un senso della verità, come delle passioni, de’ sentimenti, bellezze ecc: del vero, come del bello. Chi la intende, ma non la sente, intende ciò che significa quella verità, ma non intende che sia verità, perché non ne prova il senso, cioè la persuasione. La ricerca delle verità, massime delle più grandi, sopra tutto di quelle che spettano alla scienza dell’uomo, ha bisogno di mescolanza ed equilibrato temperamento di qualità contrarissime: immaginazione, sentimento e ragione, calore e freddezza…”.

Scrive Leopardi nei Pensieri:“La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano le conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito. e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.”

E’ veramente interessante; facciamo appena due annotazioni: il poeta definisce “noia” tutta quella gamma di emozioni e sentimenti che denotano la presenza di vita in un essere umano e che dimostrano così la grandezza infinita dell’animo; in secondo luogo si notino i verbi usati da Leopardi: sentire, accusare, patire… Esprimono tutti che il primo passo che l’uomo può fare verso la vera conoscenza non è un’attività ma una passività. Si può dire benissimo anzi che la prima attività è una passività. Non è la ragione che misura e scandaglia il reale che ci apre alla conoscenza profonda dei fatti e del mondo; prima di tutto sta il lasciarsi colpire dal fatto stesso, il provarlo, l’essere mossi da esso.

Davvero tutto nasce da un contraccolpo, da un essere feriti e toccati che permette alla ragione di aprirsi e di comprendere appieno il reale, di giungere cioè a una conoscenza non vuota né superficiale. Ma duratura.

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