Probabilmente i lettori del Sussidiario hanno già avuto modo di notare che mi sto da un po’ di tempo occupando delle competenze, di cui si è discusso anche su queste pagine. Nelle mie letture, mi sono imbattuta in un testo del World Economic Forum che vorrei condividere.

Il Wef è un’organizzazione internazionale con sede in Svizzera, fondata nel 1971, che ogni anno organizza incontri tra politici ed economisti di alto livello (il più noto è quello di Davos), per discutere le questioni più urgenti da affrontare: non entro nel merito di una valutazione complessiva di questa organizzazione, ma spesso i rapporti che pubblica (su tecnologie, disuguaglianze di genere, commercio internazionale…) forniscono interessanti spunti di riflessione. Quello che ci interessa ora è il rapporto sul futuro del lavoro, la cui ultima edizione è dell’ottobre 2020, che tiene già conto dei fenomeni innescati o amplificati dalla pandemia, ed elenca le competenze necessarie per il mercato del lavoro nel 2025: dieci, secondo un modello standard introdotto da Mosé…



Il rapporto precedente, con le previsioni al 2020, era del 2018 e mi sembra degno di nota, oltre all’elenco in sé, che pure fornisce indicazioni molto utili anche per le politiche educative, il fatto che in soli due anni queste competenze si siano profondamente modificate. Le due competenze più importanti (pensiero analitico e capacità di innovazione, apprendimento attivo e strategie di apprendimento) erano assenti nell’elenco del 2018, dove ai primi posti figuravano la capacità di risolvere problemi (“spacchettata” per il 2025 in due competenze diverse al terzo e ottavo posto) e la creatività, scesa al sesto posto. Figurano in tutti e due gli elenchi il pensiero critico, sceso dal terzo al quarto posto, l’intelligenza emotiva, dal sesto all’ottavo, e la flessibilità cognitiva, salita dal decimo al quinto, e specificata come “resilienza, resistenza allo stress, flessibilità”. Sono scomparse cinque competenze (gestione delle risorse umane, capacità di coordinamento, capacità di prendere decisioni, orientamento al servizio, capacità di negoziazione), ed entrano leadership e capacità di influenza, progettazione e programmazione delle tecnologie.



Il confronto fra i due elenchi, e le motivazioni sottostanti, mette in evidenza una trasformazione sostanziale delle competenze, che:

a) dovrebbero far parte del profilo in uscita quantomeno nella scuola secondaria superiore;

b) comporterebbero una analoga trasformazione delle strategie formative, che operano sempre più non tanto in un ambiente specificamente destinato, la scuola, quanto in un vero e proprio ecosistema formativo in cui le lezioni frontali sono sempre più integrate dalla condivisione di buone pratiche, dall’autoformazione e dall’offerta di contenuti formativi esterni alla classe scolastica.



Le trasformazioni del contesto sono state, se non introdotte, quantomeno accelerate dalla didattica a distanza e per identificare come la scuola deve cambiare per adeguarsi alle nuove esigenze servirebbe una riflessione più accurata, ma così su due piedi già mi sentirei di indicare un potenziamento degli operatori, soprattutto gli insegnanti, ma in generale di tutte le persone che lavorano nella scuola, nei Cfp, nelle imprese che accolgono i ragazzi, il cui ruolo è stato colpevolmente ridimensionato dall’introduzione dei Pcto al posto dell’alternanza. Potenziamento non solo numerico, anzi io penso che il numero attuale di insegnanti sia non solo sufficiente, ma ridondante, bensì in termini di qualità, argomento che possiamo considerare tossico, nel senso che avvelena più del polonio chi si azzarda ad affrontarlo.

Segue il ripensamento delle funzioni assegnate al centro, dalla gestione degli ambienti di apprendimento alla valutazione e al controllo delle risorse umane e finanziarie; il governo della scuola comporta, almeno per la secondaria di secondo grado, l’inclusione degli studenti in un maggior numero di processi, mentre per i livelli inferiori l’interlocutore privilegiato resta la famiglia.

La didattica andrebbe modificata, non solo con un uso diverso delle tecnologie e della formazione a distanza, ma tenendo presente un necessario equilibrio fra teoria e operatività, fra competenze cognitive e competenze non cognitive, dal momento che emerge chiaramente non solo dai lavori del Wef, ma da tutte le analisi, che per entrare nel mondo del lavoro servono competenze tecniche, ma anche trasversali (la collaborazione, la creatività, la capacità di risolvere problemi) e caratteriali, come la tenacia, la curiosità, lo spirito di iniziativa, che entrano a comporre quel “bambino intero” che dovrebbe essere al centro dell’interesse dei progetti formativi.

Da ultimo, va superata l’opposizione fra tecnologie e cultura umanistica: “c’è una sorta di ironia – notava nel 1990 David Niall, un letterato canadese con una solida formazione scientifica – nel fatto che proprio quando la tecnologia ha minacciato una irrevocabile marginalizzazione delle scienze umane nella nostra cultura, la stessa tecnologia… fornisce una cornice concettuale per mostrare che le scienze umane offrono un modello significativo per lo sviluppo tecnologico futuro, offrendo modelli di interazione fra gli esseri umani e il loro ambiente nel passato e nel presente, attraverso la letteratura, storia, l’archeologia”.  Trent’anni dopo, leggo nelle linee generali di un’istituzione che forma esperti di tecnologie informatiche legate all’arte: “Il nostro obiettivo è di formare studenti dotati delle competenze per superare i puri aspetti tecnici, e cogliere lo sviluppo concettuale del loro lavoro, contestualizzandolo nel più ampio aspetto disciplinare, storico e culturale”.

La frammentazione delle competenze, e più in generale del sapere, che nasce dalla scomposizione in materie, e in materie gerarchicamente ordinate, fino dalla distinzione medievale fra i due gradi dell’insegnamento, l’uno letterario, che comprendeva la grammatica, la retorica e la dialettica (il Trivio); l’altro scientifico, che comprendeva l’aritmetica, la geometria, la musica, l’astronomia (il Quadrivio), chiede oggi di essere ricomposta, perché la cultura non è aggiungere un numero continuamente crescente di “educazioni” (ambientale, civica, alla salute…), ma cogliere il nesso di ogni specificazione con il senso della vita quotidiana e il rapporto con gli altri. Non si è “competenti” da soli, ma in un quadro di relazioni, in quel “cammino comune” (cum petere, dirigersi insieme verso un unico punto) che è la radice non solo etimologica della competenza.

È interessante notare che da un elenco di competenze suggerito dalla riflessione su di un tema molto specifico, il futuro del lavoro, quel lavoro che del resto oggi è sempre più un elemento costitutivo dell’identità, nasce a cascata una serie di indicazioni sui contenuti e sulla forma di una scuola che non può più accontentarsi di un “programma”, troppo rigido e rapidamente soggetto all’obsolescenza, ma deve puntare all’essenziale, che è scienza ma anche arte, tecnica ma anche possesso degli strumenti necessari per capire e farsi capire, capacità di risolvere problemi ma anche di leggere un libro o di apprezzare la musica.

Mi sono un po’ lasciata prendere la mano, temo: ma di tutto ciò nella scuola c’è ben poca traccia, e soprattutto non ce n’è affatto nella formazione degli insegnanti. Ammetto di essere un po’ ripetitiva, ma ho degli illustri precedenti: Catone il Censore, quale che fosse l’argomento di cui aveva parlato, concludeva immancabilmente “Ceterum censeo Carthaginem esse delendam”, cioè “e inoltre penso che si debba distruggere Cartagine”. Non ebbe il piacere di assistere di persona a questo evento auspicato (morì nel 149 a.C., tre anni prima della distruzione della città), ma insomma alla fine ce l’ha fatta. Chissà mai…

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