È di qualche anno fa uno scritto in cui cercavo di mettere ordine tra i miei pensieri sull’insegnamento della poesia nella scuola. Illustravo il percorso su un testo provando a mostrare lo svelarsi del suo significato nel corso della lettura. Era la trascrizione di una lezione al biennio della scuola secondaria di secondo grado; la poesia era “Dai tetti” e l’autore Carlo Betocchi, il poeta su cui ho fatto la tesi e che mi aveva conquistato per l’attenzione alle umili cose concrete e il limpido linguaggio con cui ne attestava, amandole, l’essere e la presenza.
È passato diverso tempo da quello scritto ed è un po’ che non ripropongo quella poesia ai miei studenti; eppure è da quando l’ho scoperta negli anni dell’università che non riesco a risalire per le strade di alcun borgo della Toscana senza che le immagini del mare di tetti e delle increspature di tegole mi vengano alla mente: il “muto discorso” che “come da bocca a bocca” va “d’embrice in embrice” e interpella il poeta che guarda da una persiana appena schiusa il paesaggio che ha di fronte.
L’esperienza di questi anni e la rivoluzione che per me è stato lo sbarco alla secondaria di primo grado mi ha insegnato che talvolta è bene lasciare fuori dalla classe le nozioni che il liceo prima e l’università poi ci hanno fornito riguardo il testo poetico e la poesia: senza dimenticarle (sia chiaro) e consapevoli di tutto quanto vibra dietro i versi e le parole, è innanzitutto un percorso da compiere con i propri studenti quello da fare quando si presenta loro una poesia; meglio: quando si legge con loro una poesia.
La differenza tra le due formulazioni non è un puro artificio letterario, ma una significativa concezione didattica e un’importante indicazione di metodo: penso infatti che nelle ore di lezione si debba molto più “guardare” e “leggere” una poesia che “spiegarla” e “commentarla”; è l’unica strada perché possa accadere quell’esperienza unica coi tetti toscani che ho descritto prima. È un allenamento dello sguardo quello a cui si deve tendere, che insegni a fissare e cogliere i particolari del testo facendoli emergere dallo sfondo e donando loro la possibilità di parlarci, di fermarcisi dentro, di accompagnarci e di riemergere quando più lo vogliono per parlarci di noi.
Se penso al filo conduttore delle mie lezioni di poesia lo ritrovo nelle domande, le mie innanzitutto, e le mille che si aprono negli studenti davanti a testi che chiedono loro il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Chiede pazienza, la poesia; chiede un’acclimatazione lenta che usi tutto ciò che può per introdurre gli studenti al gusto del testo, alla sosta mite sui pascoli aperti dalle parole; chiede agli insegnanti di indicare le cose, di farle notare, di ripetere e ritornare, dando solo alla fine il nome a ciò che si è mostrato: similitudini, metafore, ossimori e litoti rimarrebbero solo nomi se non fossero ancorati agli esempi dei testi, e sarebbero solo nomi se non si insegna a cogliere nelle figure retoriche i segnali che il poeta ha sparso nel testo per richiamare il lettore e dargli modo di addentrarsi un po’ di più nei suoi canti.
Non bisogna avere la preoccupazione, quando si è in classe, di dire tutto sulla poesia. La poesia è come un amico, che si scopre pian piano e che si deve imparare a conoscere. Ma bisogna, e questo sì, con tutto il bagaglio filologico e letterario che il docente di lettere possiede, preparare il terreno su cui poi anche i semi della metrica, della retorica e della stilistica possano attecchire.
Avevo un alunno, tempo fa, che mi disse che le poesie di Ungaretti lo avevano fatto entrare nell’atmosfera della prima guerra mondiale molto più di tutti i film che avevo fatto vedere alla sua classe.
Sono tanti gli autori che me lo insegnano: il poeta è l’uomo che più di noi guarda e sa vedere i richiami del mondo; guarda e rappresenta meglio di noi e per noi ciò che lo interpella della realtà, in qualche modo restituendocela.
Mi hanno chiesto spesso a cosa serva la poesia. Forse a niente, se rispondiamo secondo la mentalità funzionale che corre il rischio di ridurre ogni cosa all’utilità immediata o lontana che possiamo trarne.
Non serve a niente la poesia, ed è per questo che occorre continuare a leggerla nelle scuole e ad offrire ai nostri studenti la possibilità di guardare un tramonto sul mare e trovare in parole di altri parole che leggano sé, e siano amiche sincere come quelle con cui Giorgio Caproni descrive una “Spiaggia di sera”: “[…] Come una randa cade / l’ultimo lembo di sole. // Di tante risa di donne / un pigro schiumare / bianco sull’alghe, e un fresco / vento che sala il viso / rimane.”
Serve a questo la poesia: a rinnovare lo sguardo stupito sul mondo che rende ogni cosa più cara e familiare.