“Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”. Che Camus avesse ragione, lo abbiamo sperimentato in questi mesi. La pandemia ha trovato impreparate società e istituzioni. Anche il mondo delle scuole si è fatto cogliere di sorpresa: difficile immaginare di dover chiudere i cancelli da un giorno all’altro e, allo stesso tempo, dover tenere aperta la scuola fuori da scuola, nelle case di oltre otto milioni tra docenti e studenti.



Il diritto a ricevere educazione e istruzione nei luoghi dell’educazione e dell’istruzione è stato compresso e azzerato, mentre studenti, insegnanti e dirigenti senza scuole si misuravano con la necessità di inventare una didattica a distanza che tutelasse quanto possibile il diritto a essere accolti, accuditi, accompagnati a crescere e apprendere. Presi dall’urgenza dell’inventarsi sistemi, costruire orari, scovare risorse, distribuire computer e tablet, le scuole hanno avuto poco tempo per osservare il quadro d’insieme e ragionare su quanto stava accadendo.



Negli ultimi tre mesi in Italia si è sospeso – assieme a molti altri – il diritto a educazione e istruzione. È stata una sospensione accettabile perché limitata nel tempo e legata a ragioni gravissime. Salvo che proprio il limite temporale è stato di settimana in settimana spostato sempre più in là: i giorni sono diventati settimane, le settimane mesi. E più la conclusione di questa fase si spostava in avanti, più veniva meno il carattere di eccezionalità e urgenza dei primi provvedimenti.

Abbiamo fatto la fine della rana nella pentola? Ci siamo adattati all’acqua sempre più calda, fino a restare lessati? È una domanda cui non dobbiamo sottrarci. In questi giorni si riaprono palestre e ristoranti, e la necessità di riavviare il sistema produttivo induce a trovare necessari compromessi tra sicurezza sanitaria ed esigenze dell’economia: sono decisioni che avranno un prezzo in termini di diffusione del contagio, un prezzo che evidentemente riteniamo accettabile – come collettività – a fronte del rischio di tenere altrimenti paralizzato l’intero Paese. 



Allo stesso tempo, mentre tutto si rimette in moto sembra normale e accettabile ipotizzare che il limite per le scuole si sposti ancora più in là, oltre il termine dell’anno scolastico. Ci si domanda se sia opportuno svolgere scrutini ed esami in presenza, anche se si tratta di operazioni che coinvolgono poche persone per volta. Si immaginano protocolli per aprire le scuole a settembre sottoponendone l’attività a limiti che non è certo siano compatibili con il mandato stesso del sistema nazionale d’istruzione.

Si insegue – solo per le scuole, si badi bene – un rischio zero che non sarà mai possibile realizzare. E nel contempo si caricano ancora una volta sui dirigenti scolastici responsabilità fuori misura, imponendo loro di rispondere sul piano organizzativo e legale della tutela della salute del personale, degli studenti e di chiunque altro (genitori, educatori, psicologi, fornitori) dovesse accedere agli spazi della scuola.

Non è sufficiente immaginare complicate alchimie organizzative (doppi turni, alternanza tra attività didattica in presenza e a distanza) per garantire il diritto a educazione e istruzione e la tutela della salute. Prima di tutto perché non basta raggiungere la generalità dei bambini e dei ragazzi per aver garantito il diritto a educazione e istruzione: anche ammesso che tramite forme di organizzazione creativa sia possibile coinvolgere la totalità della popolazione studentesca nelle attività didattiche (e già questo è molto dubbio), occorre sapere che raggiungere tutti non significa garantire il diritto al successo formativo per tutti. Anzi: come già è accaduto in questi mesi, le fasce più deboli pagano il prezzo più alto, i bambini e i ragazzi che hanno maggiore bisogno di scuola per colmare il proprio svantaggio sono i primi a restare indietro.

Il diritto a educazione e istruzione è divenuto negoziabile e condizionato. E con ciò rischia di perdere la sua natura di diritto e divenire quindi privilegio. Senza forse rendersene conto, il nostro Paese sta decidendo che il diritto a essere educati e istruiti può essere sospeso, a spese in particolare di quanti più ne hanno la necessità.

Ci troviamo in un frangente eccezionale e drammatico, in cui il diritto alla salute e il diritto a educazione e istruzione sono, almeno parzialmente, alternativi. Come si sta riconoscendo per ogni altro settore della vita economica e sociale, rimettersi in moto impone l’accettazione del rischio sanitario: che possiamo e dobbiamo ridurre al minimo possibile, ma non possiamo azzerare. Nel caso delle scuole, fino a questo punto la domanda che ci siamo posti è stata a senso unico: cosa siamo disposti a sacrificare del diritto a educazione e istruzione per preservare il diritto alla salute. Come sta accadendo per ogni altro ambito, occorre iniziare a porsi anche la domanda inversa: cosa siamo disposti a sacrificare del diritto alla salute per preservare il diritto a educazione e istruzione?

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori