Un recente seminario in cui si discutevano alcuni dati preliminari di una ricerca sul profilo degli insegnanti delle scuole cattoliche ha dato luogo ad un interessante dibattito, di cui vorrei comunicare alcuni punti, magari invitando i molti insegnanti di queste scuole che leggono il Sussidiario a mandarmi il loro parere (nda)



Se molto si è scritto sugli insegnanti in generale, gli insegnanti delle scuole cattoliche sono tutto sommato poco conosciuti, e magari sopravvive l’idea che siano fondamentalmente suore e preti: idea infondata, perché i religiosi sono meno poco più del 10 per cento, mentre tutti gli altri sono dei “normali” insegnanti, magari con una maggior presenza rispetto alla media di laureati nelle università cattoliche (8,5% contro meno del 4% a livello nazionale), e con una consolidata prevalenza femminile, 85,4%, dovuta anche al fatto che gli insegnanti della scuola cattolica sono presenti soprattutto nella scuola dell’infanzia (47,3%) o nella primaria (23,7%), dove gli uomini sono anche nella statale un’assoluta minoranza.



Vorrei fermare l’attenzione su di un aspetto che è contemporaneamente positivo e negativo: l’età media (41,5 anni) è nettamente inferiore ai 52 anni dei loro colleghi statali, e quasi la metà del campione ha meno di 40 anni. Questo è positivo perché avere insegnanti più giovani facilita la prossimità agli studenti, la disponibilità al cambiamento, la motivazione ad apprendere: e il fatto che 6 insegnanti su 10 siano stati accompagnati da un tutor nella fase iniziale della professione mostra che la scuola cattolica si fa carico, come sempre ha fatto, della qualificazione dei giovani.



Negativo, perché la presenza di insegnanti giovani è (anche) frutto della sistematica “rapina” che lo Stato compie prendendosi insegnanti formati a spese del sistema paritario senza riconoscere alle scuole nessun corrispettivo al lavoro di formazione dei neolaureati, e anzi mettendole sistematicamente in difficoltà. Per certi aspetti, è in atto un sistema ricattatorio: mi prendo i tuoi insegnanti, e per consentirti di continuare a erogare alle famiglie il servizio che chiedono, chiudo un occhio e ti lascio utilizzare insegnanti non abilitati, che intanto si abilitano e fanno esperienza, così poi me li prendo, in un circolo vizioso che apparentemente non ha fine. Sappi però che se io volessi rendere più rigorosi i controlli saresti nei pasticci, tu scuola e le più di 900mila famiglie del sistema paritario, 600mila nella sola scuola cattolica, che però a quanto pare non sono considerate come potenziali elettori; per cui chi se ne importa se li trattiamo male?

Qualcuno dei presenti ha ironicamente parlato di “liquidità” degli insegnanti nella scuola cattolica, nel senso che cambiano con (allarmante?) frequenza, perché chi insegna nella scuola paritaria è sistematicamente penalizzato non solo in termini di retribuzione (alcune scuole riconoscono compensi aggiuntivi per il lavoro non strettamente didattico, come i rapporti con le imprese, l’orientamento, il sostegno ai ragazzi con difficoltà di apprendimento, e in più il trasferimento nella scuola statale comporta spesso oltre ai disagi dell’allontanamento da casa anche un aggravio di costi), ma di condizioni del contratto e di sicurezza del posto. La scuola statale non può fallire mentre anche la migliore delle scuole paritarie potrebbe chiudere, e quindi di fronte alla prospettiva del posto sicuro, anche gli insegnanti più motivati finiscono col passare, magari a malincuore, allo Stato.

La “questione insegnante” si rivela sempre più il nodo gordiano della piena autonomia: per realizzarla, le scuole pubbliche (statali e paritarie) dovrebbero poter scegliere gli insegnanti in base al progetto educativo. Le statali non possono farlo, le paritarie sì, ma lo Stato mantiene rigidamente separati i due sistemi, e conta sulla capacità formativa delle scuole paritarie, cattoliche nel caso nostro, per prendersi insegnanti qualificati non solo senza alcuna spesa, ma depauperando, e rendendo meno desiderabile, il sistema paritario. Un perfetto esempio di sussidiarietà alla rovescia, in cui le iniziative della società civile supportano lo Stato.

Nel mondo delle imprese, questo comportamento si chiama poaching, o talent poaching, e indica una situazione in cui un’impresa assume un dipendente di un’impresa concorrente, perché ha delle competenze tecniche desiderabili e costa meno che formarlo. Letteralmente, poaching significa “bracconaggio” e l’idea di uno Stato bracconiere non mi piace per niente.

Tornando allo specifico della scuola cattolica e alla questione della formazione, il fatto che la grande maggioranza dei docenti è impegnato in scuole spesso molto piccole, con una media di 58 bambini nelle scuole dell’infanzia, e 131 nella primaria, suggerisce di progettare le molte iniziative in atto di formazione in servizio, di cui sono stati destinatari 8 insegnanti su 10, valorizzando al massimo la possibilità di fare rete, poiché non è pensabile che una singola scuola realizzi una formazione di qualità, e forse nemmeno una formazione tout court.

È interessante il fatto che solo l’1,3% degli insegnanti ritiene di non aver bisogno di nessuna formazione in servizio: le proposte di formazione cadono quindi in terreno favorevole. Piuttosto, le scuole potrebbero essere demotivate dal destinare risorse a questo scopo per il motivo detto sopra, e cioè la non garanzia che possano poi utilizzare il personale formato, anzi l’elevata probabilità che se ne vada. Del resto, ricordo che quando, cinque o sei ministri fa, si propose di consentire alle scuole paritarie di trattenere per almeno tre anni gli insegnanti che avevano fatto il tirocinio presso di loro, ci fu una diffusa alzata di scudi, certamente degna di miglior causa.

In attesa che questa palese ingiustizia venga sanata (spes ultima dea: ma non vorrei che mentre la speranza siede al capezzale del morente, il morente morisse…), alla scuola cattolica resta però il valore insostituibile della sua identità: meno del 30% degli insegnanti dichiara di lavorare nella scuola cattolica per motivi contingenti, che vanno dalla mancanza di alternative alla vicinanza a casa, mentre tutti gli altri fanno riferimento alla condivisione dei valori e all’ambiente accogliente, e sono soddisfatti dell’esperienza: su quasi 5mila risposte, gli insegnanti che assegnano alla scuola un punteggio insufficiente, inferiore a 6, sono 147, cioè il 3,1%, valore nettamente inferiore alle scuole statali.

Puntare sull’identità non è solo un dovere, ma una carta vincente per i rapporti con gli insegnanti e con le famiglie: la presenza di una forte rete di relazioni è essenziale per l’efficacia di una scuola, e, come ha detto uno dei presenti, nelle scuole cattoliche la relazione è figlia dell’identità, ed è anche alla base della collegialità nella concezione e nell’attuazione di un progetto educativo. Il che non significa affidare alla Provvidenza la libertà di educazione, che è e resta un preciso obiettivo politico di cui, ahimè, al momento non vedo chi se ne stia facendo carico.