E adesso – dopo avere ridisegnato diciamo con salomonica saggezza gli esami di Stato prossimi venturi – il ministro si è lasciato andare a una confessione che speravamo proprio di non dovere ascoltare: non più segretamente cova dunque in lui, profondo, urgente e necessario, il desiderio di riforma. Di lasciare la sua impronta nella nostra piccola storia attraverso l’ennesima riforma.
Non che non ce ne sia bisogno, ma visto il tragico declino della scuola a cui abbiamo assistito nel corso del tempo, verrebbe da pensare che sarebbe meglio lasciare le cose come stanno. Ma anche questo non appare facile: come stanno infatti le cose?
Non sembra che le cose nella scuola stiano: ondeggiano, fluttuano, svaniscono e compaiono quotidianamente, riservandoci sorprese e confermando lo scenario di una società liquida che proprio nella scuola, anzi, trova il suo più sgangherato palcoscenico.
Ma se il ministro dovesse davvero pensarci su? Per prima cosa bisognerebbe che si guardasse un po’ in giro, che provasse a visitare qualche realtà scolastica pubblica, qualche vera comunità in cui l’esperienza educativa e didattica continua a costruire la sua arca all’asciutto per superare/ la contumacia del male,/ una zattera per vincere l’abisso/ tornare a casa. Sono versi di uno splendido libro di poesia, Preparativi per l’arca di Matteo Munaretto, brillantemente indagato su queste pagine da Massimiliano Mandorlo. Lo dico da un po’: occorrerebbe ascoltare più spesso la voce di certa poesia. E anche in questo caso non sarebbe male che il ministro e i suoi collaboratori perdessero qualche minuto qui, tra i versi.
Per raggiungere la casa di cui parla Munaretto occorre provvedere a edificare – così come fa Noè, o il poeta con la sua poesia – un’arca proteggendola dalla violenza delle acque infeconde. L’arca è la grande costruzione luminosa/ che avrebbe trasportato/ le cose amate,/ le cose pure e grandi,/ fatta di quelle: erano quelle/ gli strumenti, quelle/ la materia che fende i flutti,/ la forza/ la forma e la sostanza di tutti/ i sogni veri.
Cosa serve davvero agli studenti per tentare il viaggio rischioso e incerto che li possa condurre verso la loro casa? Mica verso abilità, competenze, successi formativi, obiettivi: tutti questi sono solo strumenti, la poesia ribalta l’ordine delle cose.
L’arca, cioè la scuola, si fa con le cose amate, le cose pure e grandi. Quali sono queste cose senza le quali l’arca, cioè la scuola, non si fa e senza le quali l’arca s’incaglia o fa naufragio? E quali sono invece le zavorre di cui occorre liberarla? Ecco: per pensare una riforma, occorre pesare, suggerisce il poeta. Pensare infatti altro non è che dare il giusto peso alle cose, trattenere le pietre e la legna che servono a costruire e togliere sassi, ogni giorno, anche tu/ ma dal cuore.
Così potremmo fare un elenco di consigli, se non fosse che chissà quante voci e sirene stanno risuonando nei corridoi del ministero: l’ultimo pedagogista di grido; le schiere di formatori con i loro progetti con parole nuove per trasformare la scuola in un’impresa che offre all’utenza attività extrascolastiche con i Ptof , i Pof, i Pei che diventano variegati menu o dépliant pubblicitari che presentano agli utenti i prodotti migliori – come accusano Mastrocola e Ricolfi; i somministratori di test e il miraggio del successo formativo; gli esperti digitali, psicologici, ecologici con i loro discorsi e le loro tiritere moralistiche. E chissà quanti altri.
Ecco, allora ci limitiamo a dire che sarebbe giusto ascoltare il poeta: non buttare nell’arca tutto quello che grida, provvedere a pulire la stiva, partire leggeri. Tenendo salda la barra – dice ancora il poeta – non temendo. Ha una certezza, lui, con Noè: La vita è salva in questo grembo./ Noi siamo solo i custodi./ Abbiamo questo compito e lo compiremo… Ora lascia che il disordine degli elementi/ sia sconfitto. Ecco cosa fa il poeta: registra che la missione è compiuta quando è stata in grado di creare un senso, una direzione. Ed è in grado di fare in modo che tutti ne vengano raggiunti.
Ed è così per la scuola? Che compito compie, oggi la scuola? Non credono al ministero che la poesia possa essere utile? E allora riflettano su qualche pagina di filosofia che – solo oggi, purtroppo colpevolmente– torna a parlare di exemplum e di comunità, come ricordava Campodonico alcuni giorni fa. Se nella scuola ha ancora un senso la parola imparare, allora si faccia in modo di affermare di nuovo la necessità del confronto con gli esempi, con i modelli.
Si torni a leggere e a scrivere: ci si innamori di qualche Ettore o Mirandolina, ci si interroghi su Achille o su Amleto, si facciano i conti con l’Innominato o Raskolnikov, con Mersault o Roquentin. E ci si convinca finalmente, come vuole Campodonico, che è solo dentro comunità vive, capaci a loro volta di generare figure esemplari, che si cresce e si impara.
Ma la comunità non è un progetto, non la si costruisce con i corsi di formazione o gli esperti di turno. E nemmeno con una riforma. E dunque torniamo al punto di partenza: bisognerebbe che ministro e collaboratori si guardassero in giro, provassero a visitare qualche scuola, qualche comunità viva che sta già costruendo la sua arca.
E non credo che a costruire si cominci dal fondo. Ne viene qualche immediato suggerimento. Per esempio: lasciamo stare per un po’ gli esami, che sono l’ultima cosa, cominciamo dal principio. Troviamo legna buona: si può ancora pensare che gli insegnanti si arruolino con un concorso, con un test a crocette che se va bene ci consegna qualcuno che ha studiato a memoria tutti i quiz pubblicati in rete? Possiamo pensare finalmente che gli insegnanti non sono come gli impiegati di qualche pubblico ufficio? Possiamo pensare a corsi universitari orientati all’insegnamento che prevedano un anno di pratica gomito a gomito con colleghi ed alunni e un esame finale che tenga conto del corso di laurea e del lavoro svolto sul campo? Come gli aspiranti medici imparano in corsia, gli aspiranti insegnanti dovrebbero crescere in aula e nei corridoi. Possiamo pensare per un momento che la formazione ogni tanto si faccia sulla materia che uno insegna? Corsi di informatica, corsi di sopravvivenza, corsi di salute pubblica, corsi di tutto e di niente: si può aiutare un insegnante a proporre Pascoli e Leopardi alle elementari e alle medie? Si può aiutare a costruire un curriculum in cui l’essenziale trovi nuovamente il suo posto? Cose che nella scuola di oggi sembrano miraggi, ma sono davvero quello che conta per chi impara: capire perché e come fare fatica, come impegnarsi nei preparativi per l’arca.
E se proprio non si può fare a meno di mettere mano a questa riforma e non si vuole ascoltare né il poeta, né la letteratura, né la filosofia, né la scuola già viva, si vada almeno a guardare nei parchi. A vedere come i giardinieri tagliano via i rami, quelli che farebbero prendere una piega storta alla pianta o che soffocherebbero gli altri rami nella bella stagione. Solo così, ripulita e liberata sarà in grado di crescere dritta e fiorire. Se quello sarà il suo mestiere, il suo destino, il suo compito. Perché lì, come per l’arca, mica è garantito il successo formativo.
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