Al termine di un pomeriggio passato a vedere mostre, mia figlia adolescente sintetizza le sue impressioni in modo sintetico ma inequivocabile, liquidando il tutto con un aggettivo: “straziante”.

Pur con la dovuta tara, mi è sembrato un segnale sul quale valesse la pena interrogarsi, e mi è sorta una domanda: è possibile che esista una scuola in grado di formare una mente aperta e curiosa, vivace e flessibile, tale da essere in grado – se non proprio di apprezzare – almeno di cogliere uno spunto, godere di un dettaglio di un quadro mai visto prima, né studiato in precedenza?



Devo ammettere con dolore che la risposta per adesso è “no”, e questo deriva a mio avviso da una serie di fattori, interdipendenti tra loro, che anticipo sintetizzandoli come segue: la nostra modalità di approccio al fenomeno artistico, la struttura della scuola e i suoi metodi, il nostro rapporto personale con la pratica del disegno e della pittura.



È doveroso premettere due cose: in primo luogo che non è mia intenzione suggerire alcun tipo di tecnica didattica o ricetta da applicare, dato che non servono a nessuno, e mi limiterò a riportare ciò che conta per me nel fare lezione, certo di non essere originale e di non essere solo. Secondo, e più importante, ritengo che per trattare il problema dell’arte nei licei sia necessario allargare il campo ad alcune questioni che riguardano la scuola in generale, e fare delle incursioni in tutti i livelli, perché ritengo che il problema del rapporto con l’arte si annidi proprio nei primi anni di scuola. Credo inoltre che per giudicare la bontà di un percorso sia necessario partire dai risultati che esso produce, e se non ci piacciono, cercare a ritroso in quale punto correggere la traiettoria: se lo scopo dell’insegnamento della storia dell’arte e del disegno è quello di fornire strumenti e metodi per apprezzare tutta l’arte, allora qualcosa non va di sicuro.



Per spiegare il primo punto, starò sull’esempio di quel pomeriggio di mostre, dato che si trattava di pittura e scultura della seconda metà del Novecento fino agli anni Ottanta, ossia praticamente tutta arte astratta, vale a dire quella che per molti (anche adulti) ha bisogno della spiegazione; di fronte ad essa siamo spaesati, ci sentiamo ignoranti e privi degli strumenti, quando invece si potrebbe cominciare un lavoro entusiasmante semplicemente iniziando ad osservare con attenzione. Perché l’arte è un’esperienza, non un discorso, è una comunicazione spirituale oltre che fisica e psicologica per descrivere la quale le parole non sono esaustive, tanto più se osservata dal vero.

Certamente avere delle conoscenze di storia dell’arte può aiutare ad apprezzare il valore storico dell’opera, ma se ne può anche prescindere; tanto è vero che con le opere figurative, o con quelle che più facilmente incontrano il nostro gusto – e che pensiamo di aver capito –, non ci interessa conoscere, ma ci accontentiamo di riconoscere: i soggetti, l’artista, il tema. Così accade che appenderemmo volentieri in casa un Monet perché la bellezza di quel paesaggio ci fa bene al cuore, fraintendendo del tutto le intenzioni dell’artista, per il quale la pittura non è affatto contemplazione estatica del creato, e la realtà naturale è solamente il pretesto per un’indagine percettiva.

Di questi equivoci è piena la nostra esperienza di fruitori del 2023, che apprezzano Caravaggio e Michelangelo dalla loro prospettiva, dimenticandosi che tutta l’arte è stata contemporanea e che è impossibile per noi immedesimarci fino in fondo con i maestri del passato più lontano o capire la portata dirompente di quelle opere, molto spesso rifiutate e criticate.

È indubbio che l’arte del Novecento sia frammentaria, disgregata, che sia una sperimentazione continua in cui ogni artista non cerca più i valori universali, ma tenta di raccontare un suo pezzo di verità attraverso segnali formali fino a quel momento impensabili; ma questo non ci deve far indietreggiare, perché è l’arte che descrive noi stessi e il nostro tempo: è la nostra arte.

(1 – continua) 

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