Troppo facile ironizzare sulle decisioni del nostro ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. Qualunque scelta venga compiuta nei prossimi giorni, il problema educativo non solo è reale, ma è molto più grave di quanto non si pensi. E lo è quanto più non riguarda i giovani, cioè i ragazzi e le ragazze che sciamano sugli autobus e nelle metropolitane diretti a scuola, dentro i loro ambienti di vita fatti di immagini, gesti e comportamenti; o che si incrociano a legioni la sera, negli spazi pubblici che hanno eletto a luoghi di ritrovo. Così come il problema educativo non riguarda nemmeno i loro insegnanti. Questi colleghi che, dopo la laurea sperata e conseguita, si ritrovano a fronteggiare, per scelta personale o contingenze di mercato, un universo generazionale totalmente inedito (come oramai lo è ogni nuova generazione) dal quale devono riuscire a farsi riconoscere e ad essere ascoltati.



Il problema educativo non riguarda nemmeno i genitori: coppie in prima linea, sul fronte di un lavoro spesso troppo lontano da ciò che speravano, dinanzi ad un mondo che si permette due guerre alle porte di casa, con migliaia di immigrati che dai barconi precipitano nel nulla dell’universo precario e pericoloso del degrado metropolitano. Nelle città attraversate dal traffico di stupefacenti sul quale prospera la criminalità organizzata. Coppie con un desiderio interiore di vita piena costantemente da realizzare, il mutuo da pagare e, a loro volta, i genitori da accudire. Troppo semplice infine tirare sassi sui diversi governi, accusati di avere fatto poco o nulla. Lanciare urla e molotov, come nei lontanissimi anni sessanta; rifacendo il verso a generazioni oramai in pensione, dinanzi ad un contesto dove nulla è più come prima. La vera emergenza educativa inizia a rendersi visibile quando, anziché chiamare sul banco degli accusati quanti in realtà ne sono travolti – ragazzi, genitori, insegnanti e politici – si intercetta invece il vero responsabile, costituito esattamente dall’opposto: tutto ciò che separa gli uni dagli altri, i ragazzi dagli insegnanti, quest’ultimi dai genitori e tutti dai politici.



Nella sociologia dell’Ottocento i nostri maestri individuavano un tale responsabile nell’assenza del “legame sociale”. Quest’ultimo consisteva non solo nell’attenzione a ciò che univa; al patrimonio condiviso che andava dai principi morali alle eredità culturali. Ma precedeva tutto questo, con l’attenzione all’altro, ed arrivava ben oltre: alla curiosità verso il libro, mediatore indispensabile per accedere alle eredità culturali, cioè alle opere “d’arte e d’ingegno”, alle architetture ed alle eredità monumentali che, altrimenti, non dicono alcunché a nessuno, per quanto immortalate senza sosta. In pratica il “legame sociale” era costituito da tutto ciò che consentiva di dare vita ad una relazione reale, non di mera facciata, né di sola condiscendenza, bensì apertamente significativa: capace cioè di avere ricadute, generare conseguenze sul nostro stesso carattere, sul nostro modo di relazionarci e di comprendere, di edificare e di sognare, cioè educandoci.



L’emergenza educativa è esattamente l’esito di una tale comunicazione mancata con tutto ciò che ci definisce come processo di civilizzazione. Si inizia dall’indifferenza verso gli altri: dai passeggeri della metropolitana per arrivare ai compagni di classe, al personale scolastico, agli insegnanti; altrettante ombre di un mondo percepito (illusoriamente) come irrilevante. Si prosegue nella mancata attenzione alle opere ed a quanto trasmettono, arrivando alla mancata condivisione di un capitale del quale siamo gli immeritati eredi e gli inevitabili custodi. Si arriva così a rintracciare la vera responsabile di tanto degrado che risiede per intero nell’illusione di poter vivere senza legarsi necessariamente ad un universo societario. Nel credere di non avere bisogno di nessuno, una volta assicurato il reddito e garantitane l’espansione continua, così come dal non avere nessuna necessità di comprendere la civiltà che ci ha preceduto.

Ed è questa illusione a fare danni. Restiamo soli, pur stando all’interno di una frastornante compagnia. L’emergenza educativa è allora l’esito dell’assenza di relazioni significative, tanto con gli altri quanto con le eredità culturali trasmesse e trascurate, quando non addirittura irrise e lordate, come se potesse esistere un qualsiasi futuro quando non si comprende più nulla del proprio passato. Ed è proprio la scuola, il punto archimedeo nel quale precipitano ragazzi ed insegnanti, ad essere il primo spazio sociale da riconquistare, recuperando i codici della lingua, ma anche quegli dell’attenzione, della non offesa, della misura dell’altro. Così come è ancora la scuola, intesa come ambiente morale, il luogo principale nel quale si svolge l’unica battaglia che realmente conta: quella della costruzione di un futuro che, prima di essere ecologicamente sostenibile, sia soprattutto moralmente vivibile, restituito alla dignità della persona, così come alla costante custodia del bene, del vero e del giusto di cui siamo eredi.

 

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