Luigi Berlinguer ci ha lasciato. E le esequie, che si svolgeranno – per una legittima scelta della famiglia – in forma strettamente privata, suonano oggi come un epilogo ingiusto rispetto alla sua intensa vita e al segno che ha lasciato nella scuola italiana. Come se quello che ha fatto e ha detto il “ministro dell’Istruzione” per antonomasia sia stato alla fine solo un suo sogno privato.
Chi scrive ha avuto il privilegio di conoscerlo da vicino e di collaborare a diverse riprese con lui: fuori dalla sua attività di ministro, mi affretto ad aggiungere. Ma ne ha tratto motivo di ispirazione e di stimolo per la propria attività di ricerca sulla scuola, condotta per venti anni. Come me, molti altri oggi avvertono la sensazione che una pagina si sia chiusa e che il segno da lui lasciato sulle vicende dell’istruzione in Italia avrebbe meritato miglior fortuna. E che, comunque, che si sia stati d’accordo o no sulle sue scelte, è stato un uomo di visione, che ha costretto amici ed avversari a misurarsi sulle idee da lui proposte.
Nel ricordarlo, mi piacerebbe sottolineare un aspetto della sua politica scolastica che è stato meno enfatizzato di altri. Mi spiego: tutti associano il nome di Berlinguer alla riforma dell’autonomia. Ed è certamente vero: ma pochi si sono resi conto che il “primum movens” delle sue scelte non è consistito negli strumenti, per importanti e storici che fossero, come l’autonomia appunto. Il focus della sua azione è stato invece sempre centrato sugli studenti, le cui sorti gli sono state a cuore come a pochi altri, inclusi alcuni della sua stessa parte politica.
Si potrebbe fare un lungo elenco delle sue scelte e delle sue iniziative: a me piace richiamarne qui solo tre, che mi sembra lo rappresentino meglio e che corrispondono a stagioni diverse della sua attività, ma che tutte ruotano intorno all’obiettivo di promuovere e valorizzare il ruolo e la sorte degli studenti. L’autonomia scolastica, certo; lo Statuto delle studentesse e degli studenti; il libro Ri-creazione e le iniziative ad esso collegate per l’apprendimento della musica e delle scienze.
1. La prima, l’autonomia: la più nota e quella che ha suscitato maggiori dibattiti, ma anche, forse, la meno compresa. Nelle sue intenzioni, l’autonomia era lo strumento necessario per garantire il “successo formativo” del maggior numero di studenti: possibilmente, di tutti. Ricordo un convegno di una giornata alla Sapienza, il cui tema era, più o meno, “se il successo formativo costituisse un diritto soggettivo per ogni studente”. A dibatterne furono soprattutto giuristi: ed il responso fu, come era prevedibile, negativo. Ma l’errore era quello di farne una questione di diritto, mentre era una sfida di natura eminentemente etico-politica. Berlinguer aveva compreso, in anticipo, che il successo formativo era destinato a rimanere un obiettivo per pochi, fino a quando i piani di studio, gli orari, la valutazione fossero rimasti conformi ad un modello unico nazionale. È fin troppo ovvio che, costretti a misurarsi su difficoltà identiche e ugualmente misurate, i più dotati avrebbero sopravanzato di molto gli ultimi della terra. Se si voleva sovvertire questa condanna, bisognava rompere il guscio uniforme della scuola come espressione di un modello unico nazionale.
Solo proponendo a ciascuno sfide alla sua portata, si poteva pensare di portare tutti a dare il meglio di sé: e pazienza se questi tanti traguardi sarebbero stati diversi fra loro. Ma questo potevano farlo solo scuole ed insegnanti realmente autonomi: che scegliessero i loro contenuti ed i loro metodi in funzione del successo per il maggior numero di individui. E questo non doveva significare, come fu subito obiettato, abbassare il livello di tutta la scuola a quello dei più deboli e lenti fra i suoi utenti. Il senso dell’autonomia era che, idealmente, vi fossero tanti livelli di sfida educativa quanti erano gli studenti. E che tutti fossero giudicati sul livello di raggiungimento dei propri limiti e non di un limite comune a tutti, alto o basso che fosse.
Naturalmente, questo portava alla rottura di uno dei tabù della scuola tradizionale: quello che identificava – e tuttora identifica – l’uguaglianza delle opportunità con l’uniformità dell’offerta formativa. Un tabù in mezzo a tanti altri: per esempio, quello dei carichi di lavoro degli insegnanti, che sarebbero stati diversi. Ovvero quello del valore legale del titolo di studio, che non sarebbe potuto sopravvivere. Troppe sfide e troppi nemici. L’autonomia finì di essere viva nel momento in cui tutti si accordarono per parlarne bene e per non cambiare nulla. Nel momento in cui non era più motivo di scandalo e di scontro, vuol dire che aveva cessato di costringere qualcuno, o molti, a cambiare le proprie abitudini.
E quanto a Berlinguer, fu fatto provvidenzialmente urtare in una delle tante “pietre d’inciampo” che erano implicate nel suo progetto: quella della valutazione degli insegnanti. Se ne fece una ragione e si fece da parte: ma è curioso quanto spesso anche i suoi sostenitori gli rimproverino la pretesa natura “illuministica” della sua riforma più nota, senza vedere invece l’anima romantica su cui era radicata. Era un progetto di riscatto dei più deboli e non un disegno razionale calato dall’alto ad uso dei forti.
2. Prima di farsi da parte, aveva però avuto il tempo di realizzare la seconda grande misura cui è legato il suo nome come ministro: quella dello Statuto delle studentesse e degli studenti. Molto criticata fin da subito questa, quasi quanto unanime era stato in teoria l’apprezzamento per l’altra. Ma quasi nessuno ha saputo vedere che entrambe muovevano dallo stesso disegno ideale: quello di considerare gli studenti come cittadini di pieno diritto, soggetti dell’azione educativa e non oggetto di misure costrittive, che si trattasse di programmi di studio o di sanzioni disciplinari. Questo e non altro era alla fine lo Statuto: una norma di cittadinanza che faceva dei singoli gli attori della propria condotta a scuola, chiamati a risponderne non come discoli irresponsabili, ma come portatori di diritti e, solo in quanto tali, di doveri.
Il carattere romantico di questa misura è stato molto più agevolmente riconosciuto rispetto a quella dell’autonomia: ma non ne ha facilitato il successo, anzi. Una scuola abituata a considerare gli studenti come oggetti – sia nello studio che nelle scelte di comportamento – non poteva adattarsi facilmente alla novità. Che infatti fu rapidamente marginalizzata e poi di fatto svuotata meno di dieci anni dopo.
3. La terza fase della sua proposta si può far decorrere dalla pubblicazione, nel 2014, del libro Ri-creazione, con il trattino, a significare che la scuola andava creata ex novo, puntando tutto sulla motivazione ad apprendere dei giovani e non sulla costrizione, sia pure a fin di bene. Sulla scia di quel libro, del quale molti parlarono bene, forse perché pochi lo avevano letto, vennero le proposte per l’apprendimento pratico della musica e quella per lo studio innovativo delle scienze. Ancora una volta il “motore” della proposta era l’interesse per gli studenti come cittadini di pieno diritto, persone portatrici di una propria capacità di interessarsi a quanto di bello e di utile possano incontrare sul loro cammino. Ma il punto è sempre che devono esser loro a scegliere su cosa realizzarsi, non un qualche comitato ministeriale che deve decidere quel che è bene per tutti.
Ed infatti la risposta ministeriale fu la creazione di un comitato, alla cui guida – ironia della sorte e segno della non comprensione del suo pensiero – fu chiamato lo stesso Berlinguer. Che fu dotato di un ufficio in via Ippolito Nievo e confinato in quelle stanze a meditare sulle sorti della sua proposta. Ancora una visione romantica ed ancora un sostanziale rifiuto, ammantato di buone parole e perfino di un decreto legislativo, emanato sulla scia della legge sulla “Buona Scuola” e rimasto lettera morta.
Se si dovesse giudicare il segno lasciato da Berlinguer come ministro e come soggetto politico dalla misura del successo delle sue provocazioni, si dovrebbe purtroppo riconoscere che, come molti altri idealisti della politica, ha dovuto misurarsi con la resistenza dell’esistente. Una volta di più, “li profeti armati vinsono, et li disarmati ruinorno”. Ma il valore di un uomo, e di un uomo di scuola, non si misura con il successo immediato delle sue proposte. Per magre che siano state le soddisfazioni da lui raccolte in vita, il valore delle sue idee è riconosciuto, si vorrebbe dire “loro malgrado”, anche da chi non le ha comprese o non le ha condivise. Perché quel valore sta nella coerenza con cui ha portato avanti un’idea generosa e, prima o poi, vincente: che la scuola non è dei ministri e neppure degli insegnanti, ma degli studenti per i quali esiste. Ed in quella scuola essi non devono essere oggetto di scelte altrui, ma soggetti liberi e responsabili. Senza queste condizioni, il successo formativo si darà sempre in eredità familiare. Ma, come non esistono più i patrimoni nobiliari di un tempo, che si trasmettevano nei secoli, così – in un tempo forse non breve – anche quelli dell’intelletto e della cultura sono chiamati ad essere un diritto di ciascuno. E quel giorno “forsan et haec olim meminisse iuvabit”.
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