Caro direttore,
in classe fino a giugno? No, grazie. La proposta lanciata nelle ultime ore da Mario Draghi dimostra in partenza l’innata propensione del Bel Paese a parlare di scuola così come si parla di calcio: ogni italiano che si rispetti assicura di possedere la soluzione al problema educativo così come di avere in tasca la formazione–tipo in grado di vincere qualsiasi partita. E il prossimo presidente del Consiglio rientra, senza dubbio, tra gli italiani meritevoli di rispetto.



Chiariamo subito una cosa: che nel programma di un governo a tempo come sarà quello che nascerà a breve, trovi spazio un tema complesso e spinoso come quello della scuola è un merito indiscusso. Del resto, non è da oggi che Draghi si occupa dell’argomento, individuato come centrale nella crescita non effimera della società. Lo aveva fatto, tanto per citare due esempi relativamente vicini, al Trinity College di Dublino nel 2017 e all’ultimo Meeting di Rimini, quando parlò di “ruolo fondamentale dell’educazione nel preparare i giovani a gestire l’incertezza e il futuro”. Ma il prossimo capo del governo – che è economista, accademico, e ha diretto la Bce non è insegnante – dopo aver richiamato la necessità di non perdere tempo in estate con la tiritera delle nomine a singhiozzo, di partire a settembre con tutte le cattedre coperte, di assumere all’uopo nuovi docenti (secondo fonti sindacali, ne mancherebbero 200mila da aggiungere ai 600mila che formano la pianta stabile di oggi), di ridare insomma centralità al sistema dell’istruzione, scivola sulla classica buccia di banana: allungare il calendario di lezioni di quasi un mese, a fine giugno.



Non lo fa per sovrastima (credo abbia ben presente di entrare in un campo minato che poco conosce), ma perché non sa cosa significhi insegnare. Non all’università, bene inteso, che è tutt’altra cosa, ma a bambini, adolescenti, ragazzi dai 6 ai 18 anni o giù di lì. A nostra memoria non c’è stato un solo ministro italiano dell’Istruzione che provenisse dall’insegnamento elementare, medio o superiore, se si eccettua Franca Falcucci. Se andava bene, erano o erano stati docenti universitari. La stessa Lucia Azzolina, ministro uscente, eccezione non è in quanto la sua brevissima carriera scolastica è stata occupata più da distacchi sindacali che da docenza vera e propria.



Ma torniamo alla buccia di banana: perché la proposta promette di essere un fallimento in partenza? Già la segretaria Cisl Scuola, Maddalena Gissi, ha ricordato che “allungare il calendario significa far credere che con la didattica a distanza la scuola ha scherzato”. Non un bel riconoscimento per tutti quei docenti che hanno dato l’anima (lavorando gratis spesso ben oltre l’orario normalmente retribuito) nel tentativo di non disperdere il patrimonio didattico, culturale ed umano acquisito, di trovare nuove vie per rendere credibile l’insegnamento, di non adagiarsi su comodo letto delle lamentele. Chiedere loro di tornare in classe per altre tre o quattro settimane e proprio in coda ad un anno scolastico che li ha fiaccati in spirito e corpo sembra onestamente troppo. Anche perché, se saranno chiamati a far lezione, dovranno giocoforza rimandare scrutini ed esami al solleone di luglio, quando per altro dovranno (medie superiori) occuparsi dei recuperi.

Ma c’è di peggio. Solo chi non conosce cosa significhi davvero insegnare ignora che, da fine maggio in avanti, il desiderio degli alunni di entrare in classe e stare sui libri è lo stesso che desiderare un cappotto mentre si passeggia in costume da bagno sul lungomare di Rimini. In altre parole: non è costringendo gli studenti a prolungare la permanenza a scuola che si otterrebbero risultati concreti. Anzi, c’è il rischio del contrario. Un po’ come certo orientamento didattico degli anni Ottanta–Novanta del secondo scorso che intendeva imporre ovunque il tempo prolungato nella convinzione che più scuola (in termini di quantità) equivalesse ad una scuola migliore (con tanti saluti alla qualità). Non si tratta di lavorare meno, ma di lavorare meglio. Su questo, purtroppo, Mario Draghi mostra la corda.

Ci sarebbero infine motivazioni legate alla stagione turistica, che allungando le lezioni dovrebbe cominciare più tardi, ma il discorso si farebbe troppo lungo. Piuttosto che ascoltare tecnici (sapienti di teoria, digiuni di pratica) e politici (sciagurata la loro unanime decisione di varare l’inutile ora settimanale di educazione civica, di cui scriveremo un’altra volta), ascolti gli insegnanti. Almeno su questo, avrà qualcosa da imparare.

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