Il professore cambia scuola è un film francese del 2017 il cui titolo originale, Les grand esprits, è fin troppo generico rispetto a quello italiano così concreto e quasi burocratico. È una commedia di 106′ che il regista Olivier Ayache-Vidal dirige con grande maestria al punto che lo spettatore ne viene totalmente “preso”, complice la bravura – davvero coinvolgente – dell’attore protagonista Denis Podalydès.



È la storia di un professore – François Foucault – che da una delle più quotate scuole parigine, la “Henri IV”, viene trasferito in una sperduta scuola delle banlieues francesi. Se prima si poteva permettere di fare sfoggio del proprio sapere arrivando addirittura a mortificare con battute sarcastiche i propri studenti, ora è totalmente messo alle strette dalla nuova realtà di scuola che presenta un altissimo numero di stranieri e gravissimi problemi sociali; un nuovo contesto che non gli consente più di “godere” dell’autorevolezza istituzionale che lo status di docente garantisce. Una scuola in cui è impossibile fare lezione.



Da qui la frustrazione propria e dei nuovi colleghi, in particolare di una giovane insegnante con cui condivide il grave disagio. Il suo insegnamento nel precedente liceo parigino si svolgeva in condizioni tali che per lui essere in cattedra era come trovarsi su un palcoscenico, da dove dall’alto del suo sapere poteva  planare sulle povere menti degli studenti “ignoranti”.

Anche la scuola di una volta era così. Il professore possedendo la propria disciplina esercitava un vero e proprio potere, il cui scopo era la selezione delle menti migliori, che poi sarebbero diventati i quadri della società, molto spesso elitaria e borghese e per di più ingiusta, perché favoriva soltanto i rampolli delle famiglie abbienti. È la lezione che in Italia ci ha dato don Milani, che i francesi non hanno avuto. Ovviamente un tale docente si identificava col proprio ruolo e il suo io si auto-gratificava, eludendo la realtà umana di limiti e debolezze propri, oltre che dell’istituzione.



Quando invece il professor Foucault si trova a dover insegnare in un contesto socio culturale “senza rete”, in cui cioè la credibilità non deriva dal ruolo istituzionale che la società gli assegna, ma si tratta di “conquistarsela”, allora il dramma esplode: né lui né i nuovi colleghi  possono fare affidamento su un insegnamento come pura trasmissione del sapere, poiché gli studenti non ne capiscono lo scopo né l’utilità per sé. E qui il film diventa davvero interessante.

Un elemento efficace che spiega come François Foucault – a differenza dei suoi nuovi colleghi, che pur sono volenterosi e tuttavia non riescono a coinvolgere gli studenti – riesce nell’intento è il fatto che egli non cede sulla propria funzione d’autorità. Non solo. Quando gli studenti mancano di rispetto, non desiste dall’esigere la disciplina, però mantiene sempre – e qui sta la sua forza – il senso del proprio ruolo di docente, autorevole e consapevole dello scopo di dover trasmettere la disciplina, non per ottemperare ad un programma ma per il bene dei ragazzi.

Tuttavia egli non si limita a questo: la consapevolezza del valore e della bontà di ciò che egli conosce ed ama (la disciplina!) a fronte della “crassa” ignoranza dei propri studenti, non gli impedisce di trovare modi inediti e creativi per farla passare nei ragazzi, solo apparentemente disinteressati. Mettendo in discussione se stesso e non identificandosi più con il ruolo preconfezionato di docente (“lei non sa chi sono io!”), ovvero abbandonando la falsa sicurezza derivante dal potere del proprio sapere e andando incontro alla realtà che ha davanti, riesce a ripensare come trasmettere sia la grammatica che la letteratura.

Emblematico quel che si inventa per introdurre gli studenti al romanzo de I Miserabili di Victor Hugo. Bisogna però precisare che l’evoluzione in umanità del professore avviene in modo lento e graduale e se egli arriva ad esprimere un nuovo e più efficace approccio alla didattica è soltanto per un bagno di umiltà, vale a dire dopo essersi scoperto inerme di fronte alla realtà di quei ragazzi di periferia. François non cade mai nella trappola di  personalizzare lo scontro, capisce che non deve assecondare le prese di posizione, le provocazioni e le sfide degli studenti; anzi, con grande pazienza impara a riconoscerne la fragilità e la totalità di vita – che non gli è dato possedere – fatta di rapporti con i compagni di classe, con i genitori e delle cattive frequentazioni della banlieue.

Il film insegna che mettersi in discussione è un atto creativo perché costringe al recupero della ragione o scopo di quel che si sta facendo, quindi della verità del gesto e ciò rende rende umani; rappresenta un recupero della dimensione affettiva del docente verso se stesso e verso l’altro, sia colleghi che studenti. Illuminante è la scena finale in cui lo studente più discolo – prima di salutare il prof per le vacanze estive – gli confida: “Prof, già sento che mi mancherà”.