Nonostante l’apparente linearità delle soft skills

La prima è quella con origine nel mondo del lavoro. Come è noto, le ricerche sulle soft skills hanno avuto avvio nell’ambito della psicologia sociale applicata al mercato del lavoro. Questo iniziale e specifico territorio d’interesse si è dilatato ben presto in altre direzioni soprattutto in seguito agli studi di James J. Heckman (classe 1944, premio Nobel per l’economia nel 2000, docente nell’Università di Chicago) e le sue serrate critiche al sistema dei test per verificare le conoscenze degli allievi, pratica largamente in uso negli Stati Uniti.



Attraverso il meticoloso confronto dei risultati scolastici ottenuti dagli allievi e quelli rilevati dai test lo studioso statunitense giunse alla conclusione che a parità di esiti, chi disponeva di buone qualità non solo cognitive (i Big Five) era destinato ad una carriera più brillante e ricca di maggiori soddisfazioni. Le indagini di Heckman andarono oltre e dimostrarono che aspetti fondamentali che caratterizzano il percorso lavorativo e la vita nel suo complesso – quali, ad esempio comportamenti alimentari devianti, abuso di sostanze, tendenza alla violenza, propensione alla depressione e all’infelicità, probabilità di essere coinvolti in attività illegali, minore longevità – erano legati in senso inverso al possesso delle non cognitive skills.



Ulteriori ricerche portarono Heckman su un terreno per molti aspetti pedagogico, valorizzando la modificabilità dei tratti di personalità. Infatti essi sono malleabili, prendono forma fin dai primi anni di vita e dipendono dallo stile di vita della famiglia e dall’importanza che ad essi viene assegnata durante gli anni scolastici. Gli esiti ultimi delle indagini di Heckman sono orientati a leggere le soft skills nel senso delle character skills e cioè come costitutive della personalità umana: per quanto la conoscenza e la padronanza delle competenze cognitive siano una base importante, lo sviluppo delle persone e il loro destino anche nell’età adulta dipende anche – e molto – dalla mobilitazione permanente delle risorse profonde e spesso meno evidenti e lasciate latenti. In questa direzione ha offerto significativi contributi Giorgio Vittadini, un economista cui si devono molteplici interventi a sostegno delle tesi di Heckman (cfr. J.J. Heckman, T. Kautz, Formazione e valutazione del capitale umano. L’importanza dei “character skills” nell’apprendimento scolastico, introduzione di G. Vittadini, Il Mulino 2016).   



Altri studiosi hanno puntato, invece l’attenzione sull’apprendimento delle soft skills, guardando soprattutto ai processi di socializzazione e il rapporto tra questi e la sfera socio-emotiva (da qui l’impiego dell’espressione socio emotional skills, formula che è preferita dagli esperti dell’Oecd). Se le soft skills e le character skills sono educabili, come agire perché le competenze sociali ed emotive siano valorizzate, entrino a far parte della vita familiare e quella scolastica? Non si tratta di una questione sconosciuta perché in tutte le scuole del mondo, in modo più o meno efficace, lo sviluppo socio-emotivo di bambini e ragazzi è una costante permanente perché consapevolmente o implicitamente è impossibile che giovani e adulti trascorrano un lungo periodo di convivenza senza che questo abbia influenza sulla loro dimensione socio-emozionale.

Questa, in apparenza banale, esperienza ha attratto l’attenzione in specie di psicologi e sociologi dell’educazione (tra i ricercatori dell’Oecd da citare i lavori di Oliver P. John e Filip De Fruyt, in Italia i lavori e le ricerche di Andrea Maccarini e il gruppo di ricerca trentino animato da Francesco Pisanu e Franco Fraccaroli) sviluppandosi attraverso ricerche che hanno esplorato i fattori facilitanti e quelli che invece possono rallentare lo sviluppo delle socio emotional skills. È emerso che rendendole esplicite durante la vita scolastica è probabile che si sviluppino più rapidamente e siano più durature e che sia perciò opportuna la costruzione di curricoli che valorizzino la dimensione socio-emotiva.

Ma molto incidenti sono anche altri fattori positivi e coadiuvanti come la chiarezza degli obiettivi educativi della scuola, la coerenza con cui viene gestito il progetto educativo, il clima positivo condiviso e raccordato con le famiglie, l’attenzione verso i bisogni degli allievi, la capacità di avvalersi di risorse educative multiple e, naturalmente e, forse soprattutto, la personalità matura dei docenti.

Il dibattito sulle soft skills si è infine articolato in una terza direzione e cioè in stretto rapporto con l’educazione del carattere. Le soft skills in sé possono essere considerate “neutre” in quanto frutto dell’osservazione psicologica che le mette in relazione soltanto con la loro predittività senza esprimere giudizi di qualsiasi natura. Ma è anche vero che esse direttamente o indirettamente incrociano tematiche sensibili su materie ad alto tasso di opinabilità come, ad esempio, la natura dell’identità personale (estroversione, stabilità emotiva, coscienziosità), del rapporto interpersonale e comunitario (gradevolezza, apertura mentale).

Ed è proprio in questa direzione che si è sviluppata una terza interpretazione, di natura etica, delle soft skills. In questo caso esse sono concepite come vie preferenziali per accedere alla formazione non solo della personalità, ma a quella del carattere personale, giudicato la base per l’educazione della coscienza etica.

Figure di spicco in questo ambito sono alcuni allievi dello psicologo Lawrence Kohlberg (1927-1987) come Thomas Lickona (classe 1943), animatore insieme ad alcuni suoi collaboratori (Eric Schaps, 1942-2021, e Catherine Lewis), di una tra le più importanti iniziative americane nell’ambito movimento della Character Education e autori di un vero e proprio manifesto-guida per l’educazione morale. In questo caso l’educazione delle soft skills sconfina in un territorio a forte vocazione pedagogica, intrecciandosi  con forti ragioni etiche e religiose: l’educazione del carattere ha lo scopo di sviluppare virtù “buone per l’individuo e per la società”.

Vien bene qui ricordare che il tema dell’educazione del carattere nei Paesi anglosassoni in parziale controtendenza con l’efficientismo funzionalistico che guida le politiche scolastiche nostrane – ove al massimo si giunge a parlare di cittadinanza attiva – costituisce una preoccupazione primaria. Lo documentano i numerosi documenti che le autorità scolastica mettono a disposizione delle scuole (facilmente reperibili in rete), i programmi specifici elaborati da gruppi di scuole, le iniziative assunte da agenzie private e infine l’attività di apposite associazioni impegnate in questo settore (la più nota e importante è l’Association for Character Education con sede in Inghilterra).

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