“Abbiamo riguardato il lavoro con loro e abbiamo guardato loro”. Questo, in nuce, un tentativo di recupero di inglese al liceo, nato dall’esigenza di due colleghe che si sono chieste “come mettere in moto uno studente bloccato”. Nell’ultimo periodo di scuola un’ora alla settimana è stata dedicata alla ripresa dei contenuti, costituendo due gruppi e scambiandosi gli studenti in base ai livelli di apprendimento raggiunti.
Nella nuova compagine molti si sono sentiti più liberi di chiedere o di proporre il loro tentativo e la verifica finale è consistita nella richiesta di un lavoro commentato, in cui ognuno, se non riusciva a fare un esercizio, doveva provare a spiegare perché, al fine di acquisire consapevolezza del proprio apprendimento.
Una didattica che si è rivelata proficua, nella quale il recupero ha perso qualsiasi connotato di ripetitività ed è consistito sostanzialmente in un dialogo tra soggetti liberi. Non vi sono stati se non pochissimi debiti in queste classi: una conseguenza, non un assunto di partenza a imitazione del tanto decantato sistema finlandese, additato come esempio di scuola innovativa, a tasso dispersione zero, dal presidente dell’Associazione nazionale presidi (Anp) Antonello Giannelli durante un’audizione in Commissione Cultura alla Camera: “Registriamo una forte disaffezione dei ragazzi dall’andare a scuola e fare formazione. E io ritengo che la matrice essenziale sia da ritrovare nella matrice ‘gentiliana’ dei nostri cicli di studi, che genera dispersione. È in crisi il sistema ‘trasmissivo’ dell’insegnamento, anche per questo serve innovazione e vorrei attirare l’attenzione sul caso della Finlandia, dove non ci sono bocciature e il tasso di dispersione è zero, e non sto parlando di un ‘6 politico’”. Quindi, ha concluso Giannelli, “dobbiamo fare in modo che i nostri docenti siano in grado di ‘convincere’ i nostri studenti della bontà di avviare un processo di apprendimento”.
Fermo restando che non è del tutto chiara la definizione di scuola ‘trasmissiva’, demonizzata in tanta letteratura didattica (se una scuola non trasmette cultura da una generazione all’altra e non la invita al vaglio della tradizione, ha senso di esistere?); pur considerando poco convincente imputare solo all’impostazione gentiliana della scuola una crisi epocale come quella che stiamo vivendo, in cui il fenomeno del ritiro dall’impegno, dalla vita, dallo studio, dal lavoro è diffuso tra giovani e adulti, nella scuola e nel mondo del lavoro, segno di mancanza del significato del vivere, di coscienza del compito, di impegno serio con la vita propria e altrui, è evidente che occorre prendere sul serio l’invito a fare in modo che i nostri studenti si convincano della bontà di avviare un processo di apprendimento. O meglio: fare in modo che i nostri studenti si implichino in un’appassionante esperienza di conoscenza e investano su sé stessi.
È stato questo il tema centrale del collegio docenti finale delle scuole della Fondazione Grossman, riunitesi all’ombra degli alberi in cortile nell’afoso pomeriggio del 30 giugno per tentare di rispondere alla domanda: “Da che cosa abbiamo imparato e quali passi di consapevolezza abbiamo compiuto, rispetto all’uso della ragione, dell’affezione e della libertà nella conoscenza e nelle relazioni?”
Molti gli interventi di docenti di tutti i livelli scolari, dall’infanzia ai licei, in cui sono emerse le strade tentate durante l’anno per coinvolgere gli studenti nel lavoro. I docenti di italiano della scuola secondaria di primo e secondo grado hanno raccontato il loro percorso di autoformazione sul tema della “domanda”, considerata come fattore essenziale per mettere realmente e appassionatamente in dialogo gli studenti, soggetti di conoscenza, con l’oggetto della loro disciplina: il testo.
La “domanda” è stata oggetto di riflessione teorica e di analisi critica: durante l’anno i docenti si trovavano per valutare e migliorare le domande poste ai testi al fine di avviare il processo interpretativo e per analizzare le domande poste dai ragazzi, nell’ottica di affinare la capacità di interrogare gli oggetti disciplinari coinvolgendo i ragazzi nell’avventura interpretativa.
Sorprendentemente affine il tentativo proposto dalle docenti della scuola dell’infanzia e quelli di greco e latino del liceo classico: le prime hanno impostato l’intero anno scolastico sul racconto drammatizzato de Il leone, la strega e l’armadio di C.S. Lewis. Le maestre hanno rappresentato a puntate gli episodi del racconto, ciascuna interpretando un personaggio, e il percorso si è rivelato in grado di educare l’attesa e la pazienza dei bambini e anche dei genitori che sono stati invitati a non anticipare le vicende del testo, nonché di potenziare la conoscenza e la proprietà lessicale, stimolate da un testo di indubbio valore letterario. Grazie alla capacità attrattiva dei personaggi, che che ha favorito l’immedesimazione dei bambini, la storia ha offerto l’occasione anche di una educazione morale, incarnando nelle vicende temi importanti come la lotta tra il bene e il male, il tradimento e il perdono…
Un antidoto alla dispersione è sicuramente il coinvolgimento in grandi storie attraverso la narrazione e la drammatizzazione di testi densi dal punto di vista semantico, in tutti i livelli scolari, al contrario di una malintesa concezione di inclusione che suggerisce di abbassare il livello delle proposte didattiche per non creare disparità. Gli studenti attendono dagli adulti, diceva un docente di arte, non di facilitare loro le cose, ma di essere implicati in percorsi che rispondano alle esigenze del loro cuore.
Analogamente al percorso della scuola dell’infanzia, nel dipartimento di lingue classiche si è lavorato sulla possibilità di un approccio testuale all’apprendimento delle lingue, non soddisfatti dell’idea che i primi anni siano dedicati a uno studio puramente grammaticale della lingua indifferente alla questione del senso. Il rischio di studiare i testi solo come strumenti per conoscere la lingua, di parcellizzarne l’analisi su elementi o di morfologia o di sintassi, è alto al biennio e si rischia di demandare al triennio l’incontro unitario con il testo, demotivando gli studenti.
La ragione, infatti, è un organismo, non un meccanismo, e si soddisfa solo nell’incontro col significato delle cose. Il tentativo in atto è quello di proporre già dal primo anno testi di una certa lunghezza, perché per accedere al significato di un testo serve un contesto e leggere insieme miti e storie per intero aiuta a ricavarlo. Si legge dunque a puntate con gli studenti, nei quali si genera anche aspettativa sul prosieguo, e la contestualizzazione aiuta a muoversi anche davanti a strutture morfologiche e lessicali non note e ad apprenderle.
Questi e altri interventi hanno messo in luce che per combattere la dispersione scolastica, il disamore per lo studio, il disinvestimento su di sé e sul proprio futuro, innanzitutto occorre che gli studenti facciano esperienza del significato dei contenuti loro proposti. E ciò accade a condizione che i docenti si riapproprino delle proprie discipline, sappiano scegliere cioè contenuti adeguati alla domanda di senso che alberga nei cuori degli studenti, propongano strategie e strumenti adeguati a conoscerli nelle condizioni attuali, decostruiscano e ricostruiscano il loro sapere con gli studenti; condividano i loro tentativi e interrogativi con i colleghi, perché il compito di istruire ed educare oggi è estremamente arduo ed è impossibile affrontarlo da soli; siano realisti e flessibili, considerando i vincoli che la realtà pone come occasione di innovazione, comprese le domande, le paure e le incertezze degli studenti. Perché la rigidità, gli stereotipi e lo schematismo sono i veri ostacoli di una scuola che, attraverso la relazione, intenda coinvolgere e appassionare gli studenti a sé stessi e alla realtà.
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