Da qualche tempo sul Sussidiario, a partire anche dalla pubblicazione del volume Viaggio nelle character skills. Persone, relazioni, valori curato da Giorgio Chiosso, Annamaria Poggi e Giorgio Vittadini si discute delle non cognitive skills.

Il volume ha già ricevuto importanti apprezzamenti e in qualche caso anche qualche severa critica, come da parte di Galli Della Loggia che, partendo dal nuovo curriculum dello studente, bollava questo nuovo strumento, e tutti i tentativi ad esso collegato, come discriminatori e non inclusivi.



Chi lavora nella scuola e sta al mondo sa bene che non è certo la scuola a discriminare, che piuttosto è il mondo che offre opportunità diverse ai giovani studenti: alcuni miei alunni, pur abitando a pochi chilometri da Milano, non hanno mai visto il Duomo o la Scala; altri alla Scala hanno l’abbonamento e ne hanno già visto mezzo di mondo. Ma non è nemmeno così automatico che chi frequenta corsi di equitazione o master internazionali possa sviluppare capacità e competenze superiori ad altri, se è vero che l’esperienza non è fare le cose, ma piuttosto sviluppare un giudizio su ciò che si fa. Non mi sembra dunque che la critica sociologica possa mettere in discussione l’importanza di ciò che viene sviluppato all’interno della riflessione sulle character skills.



Piuttosto però osservo che tanto spiegamento di forze potrebbe apparire a molti come un’azione di retroguardia o addirittura come un attacco fuori bersaglio. Cerco di spiegarmi: come ha bene illustrato Rosario Mazzeo in un suo recente articolo, James Heckman e i suoi character skills hanno riaperto la discussione sull’educazione globale della persona dopo le sbornie docimologiche dei paesi anglofoni che riducevano l’attività di valutazione a una mera attività misurativa. Ma questo vale storicamente per gli Stati Uniti o per gli altri Paesi: davvero vale anche per la situazione italiana? Basterebbe andare a rileggersi le Indicazioni nazionali per il curriculum del 2012 o anche le recenti dichiarazioni del ministro sulla scuola d’estate in periodo di pandemia, per rendersi conto che nella scuola italiana rimane quell’impianto umanistico che si può ricondurre a una visione olistica della persona dello studente a cui si richiama anche Nora Terzoli in un altro articolo apparso su queste pagine.



Potrebbe insomma sembrare che questi richiami ai temi delle character skills sfondino una porta già aperta da tempo. Chi vive nella scuola, però, sa che la partita non si gioca sulle carte e sui documenti, come ha ben dimostrato nell’Inside recente del Sussidiario Franco Nembrini. Ed è proprio la sua testimonianza che mi sembra richiamare a un’attenzione ulteriore rispetto a questi temi: come dice Massimo Recalcati, tutto nella scuola si gioca nell’ora di lezione, nel rapporto tra persone vive e intere. Si possono costruire persone così? E se mai si potesse davvero, come sarebbe possibile? Ecco, Nembrini ha mostrato come la scuola, essendo scuola, facendo propriamente la scuola, può contribuire a rimettere in circolo l’umanità di chi impara e di chi insegna.

Non vorrei mai, invece, che, spingendo l’acceleratore sulle character skills, la burocrazia in agguato ne facesse un nuovo vessillo per progetti, corsi di formazione, programmi e programmini: alé, tutti gli insegnanti al corso di aggiornamento sulle character skills, tutti gli studenti con il nuovo esperto (ma quanti ce ne sono nella scuola?), invece di imparare (tanto i prof, quanto gli studenti) Dante o Leopardi, il sistema periodico o il teorema di Pitagora, perché poi nella pratica avviene così. Mi torna in mente una grande poesia di Carlo Betocchi. Dice così: “Ciò che occorre è un uomo/non occorre la saggezza,/ciò che occorre è un uomo in spirito e verità;/non un paese, non le cose/ciò che occorre è un uomo/un passo sicuro/e tanto salda la mano che porge,/che tutti possano afferrarla/e camminare liberi e salvarsi”. Come lo fai un uomo così? Ecco, è a questo che dobbiamo rispondere essendo scuola, facendo la scuola. 

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