Il lungo e articolato intervento della professoressa Zanello mi ha spinto a portare un contributo al dibattito, senza nessuna intenzione di avviare un dialogus fidei contra infideles (le competenze disciplinari acquisite in dieci anni di latino restano indimenticabili), ma piuttosto per esprimere un punto di vista, supportato da molti esiti di ricerca, che si confronta con quello, certamente diffuso fra i docenti, che l’autrice diffusamente documenta.
Vorrei partire da una citazione, trovata in un testo di Giovanni Cominelli, che mi ha molto colpito: la scuola, così com’è, è “una struttura dissipativa del capitale umano delle sempre più scarse generazioni giovani”, generazioni che consumano il presente in modo compulsivo e depressivo, come documenta una recente ricerca della Swg. Penso che si possa essere d’accordo con il fatto che qualsiasi intervento sulla scuola, in termini di curricoli, strutture, articolazione degli indirizzi e dei piani di studio e quant’altro, debba avere l’obiettivo di opporsi a questa “dissipazione”, che ha un costo umano prima ancora, e molto più, che non economico o sociale.
L’ipotesi avanzata da più parti di valorizzare le competenze cosiddette “non cognitive” ha, dal mio punto di vista, precisamente questo scopo, e non quello di far uscire dalla scuola ragazzi “pronti all’uso” sul mercato del lavoro, che peraltro ha smesso da tempo di chiederglieli. E comunque non dimentichiamo che è un diritto dei ragazzi acquisire una preparazione che li abilita a svolgere un lavoro, e sono loro le principali vittime dell’attuale scollamento fra professioni richieste dalle imprese e offerte dal sistema formativo.
Gli argomenti da trattare sono molto numerosi e richiederebbero un lungo discorso. Partirei dalla definizione di ciò di cui stiamo parlando, che non è irrilevante: soft skill non è la stessa cosa di socio-emozional skill (la definizione utilizzata dall’Ocse), o di competenze chiave, o di character skill (tratti della personalità, la definizione utilizzata fra gli altri da Heckman). Anche sulla tassonomia di queste competenze si sono molto esercitati psicologi, sociologi ed economisti: i cosiddetti big five a cui fa riferimento l’articolo, di matrice psicologica, sono probabilmente la più conosciuta, ma non l’unica.
Anzitutto, non è corretto parlare di competenze cognitive (per la scuola, preferirei utilizzare “competenze disciplinari”, ma è un mio parere personale) come opposte a competenze non cognitive, non si tratta di un aut aut (sempre per fare riferimento al latino) ma di un vel vel: le competenze comprendono le conoscenze, e senza di esse non sono che un termine vuoto. Del resto, come la gentile interlocutrice fa notare, da sempre la scuola educante non si limita a trasmettere delle informazioni, di qualsiasi tipo e livello, ma si propone di integrarle in uno sviluppo armonioso della persona. Far uscire dal non-detto questo ruolo specifico della scuola mi sembra un aspetto positivo, perché sottolinea la centralità delle competenze di tipo olistico e non le lascia al caso. La preoccupazione espressa sulla perdita di importanza o sulla soppressione delle conoscenze, e il fastidio per l’ennesima moda pedagogico-ideologica mi paiono eccessivi, anche se forse non immotivati, se si pensa all’abitudine tutta italiana di schierarsi immediatamente fra guelfi e ghibellini.
La relazione fra competenze non cognitive e riuscita scolastica, anche in termini di voti o esito di test, è nota agli insegnanti e confermata dalle ricerche: le esperienza esaminate all’interno di una ricerca in corso, da me coordinata, ha inoltre mostrato che considerare le competenze non accademiche ha consentito, in modo forse inaspettato, di valorizzare quei ragazzi che erano in difficoltà secondo i criteri di valutazione normali. Non si tratta di dare il voto alla socievolezza o alla resistenza allo stress, ma di capire se e quanto sono presenti, per potenziarli e consentire un approccio più olistico all’apprendimento.
D’altro canto, anche se non esiste un vero e proprio profilo professionale degli insegnanti, le cinque competenze indicate per gli insegnanti inglesi mi paiono una buona base di partenza: competenze tecniche – disciplinari e metodologiche –, capacità di entrare in relazione con gli allievi e i colleghi, capacità di lavorare in gruppo, capacità di relazionarsi al contesto e orientamento al compito: tutte competenze che rientrano in quelle definite come “non cognitive”, di cui il processo di formazione si occupa poco o per niente, e che vengono acquisite, se lo vengono, nella pratica. Ho scoperto da poco, lo confesso, che la parola tirocinio, cioè il periodo iniziale dell’insegnamento in cui si apprendono i fondamentali della professione, deriva dal latino tiro, la recluta, e canere, inteso nel senso di dare la sveglia. Attivare le capacità dei nuovi insegnanti, mi piace molto: ma, siamo seri, questo viene fatto e, soprattutto, valutato?
Il tema della sudditanza della scuola alla domanda del mercato presenta un certo numero di punti deboli, a partire dalla ipotetica selettività insita nella valutazione delle competenze non cognitive, valutazione da intendere invece come formativa. In realtà, ormai da tempo si fa riferimento alle competenze chiave, che sono sia cognitive che non, in riferimento non esclusivamente al lavoro ma al bisogno della persona di far fronte alle richieste continuamente mutevoli di una società in rapido e imprevedibile cambiamento. Fra l’altro, parallelamente all’esigenza di sviluppare le competenze tecnico-scientifiche (le mitiche Stem) si va affermando la convinzione che non si può rinunciare alla formazione umanistica, che consente di contestualizzarle e di assegnare loro un senso. Mi ha colpito il libro del 2000 di James Hunter, sociologo della cultura e della religione, La morte del carattere, in cui si parla di “disintegrazione delle condizioni morali e sociali che rendono possibile il carattere”, con l’affermarsi di una cultura che mina l’idea stessa di identità, e la considera come un elemento di disturbo in una società in cui l’unico valore è quello del consumo.
Di questa “strategia per instillare nei giovani particolari convinzioni morali… in cui la morale è ridotta a comportamenti conformisti, separati dalle radici storiche, valoriali e culturali” abbiamo del resto numerosi esempi attualissimi. Si cerca di strumentalizzare la scuola per far passare idee che sono solo di alcuni: una scuola attenta allo sviluppo complessivo della persona può invece, a mio avviso, opporsi a questa deriva, anche se le caratteristiche di personalità si formano nei primi anni di vita soprattutto in famiglia, e le eventuali carenze si accumulano ed esercitano i loro effetti nell’età adulta.
Non è detto, certo, che queste competenze siano malleabili e possano essere modificate da un’azione intenzionale nella scuola, né fino a quando; tuttavia, programmi scolastici che mirano a svilupparle negli adolescenti sembrano esercitare un influenza positiva nel corso degli anni, come sta mostrando, ad esempio, l’esperienza della Piazza dei Mestieri di Torino, un Cfp che ospita anche ragazzi con storie problematiche e insuccessi scolastici.
Mi pare di poter concludere, forse ottimisticamente, che l’attenzione ai tratti di carattere è un elemento dell’intensificazione della riflessività sull’essere umano, e del crescente interesse per il “bambino intero”, cioè sullo sviluppo della persona al di là del successo scolastico. Si tende più che in passato ad adottare un modello centrato sull’insieme delle caratteristiche che ogni bambino ha acquisito prima di entrare a scuola, per rinforzarle o per colmare le lacune, d’intesa con la famiglia e con l’insieme della comunità educante. L’insegnante esercita un ruolo adulto di vigilanza, a volte abbandonato da genitori che cercano solo di risparmiare ai figli difficoltà e frustrazioni, abbandonandoli alle emozioni del momento. È certamente una sfida, forse anche un rischio, ma può rendere alla scuola quel ruolo sociale che sembra aver perso.
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