In un mondo in rapido cambiamento c’è qualcosa che resta fermo: non è il motore immobile di Aristotele, ma la scuola italiana. Può capitare di tutto nella nostra storia: Covid, guerre, avvento dell’intelligenza artificiale, ma la trappola conservatrice resta identica. Si basa su due componenti, vincenti perché inamovibili: la burocrazia ministeriale e quella sindacale. La prima vive e prospera grazie a procedure, ritocchi e aggiustamenti. Si muove con nuove costruzioni pensate a tavolino, ignorando (volutamente) chi è sul campo e ha il polso della situazione. La seconda componente, invece, ha la testa girata nel secolo scorso. Cerca soluzioni vecchie a fatti nuovi. Mentre la burocrazia ministeriale riempie i registri elettronici di nuove compilazioni senza una visione educativa d’insieme, la burocrazia sindacale fa battaglie per paghette, ritocchi allo stipendio, bonus e soldi a pioggia.



Per la burocrazia ministeriale i docenti sono cervelli statali, meramente esecutivi; per la Cgil gli insegnanti, invece, sono “lavoratori della conoscenza”,  non professionisti di percorsi educativi o uomini e donne appassionati allo studio, all’umano. I lavoratori della conoscenza, in tale ottica datata, non possono avere una rappresentanza autonoma che farebbe venir meno il collaudato mansionario e, soprattutto, non devono cercare una differenziazione di ruoli effettivi in base al merito o al lavoro straordinario fatto a scuola.



Entrambe le burocrazie, inoltre, non vedono lo studente di oggi con le sue fragilità e i suoi problemi. L’adolescente, nella loro ottica, è un essere cognitivo chiuso nel perimetro della mente da raddrizzare e rassicurare con educazione civica, studio delle relazioni affettive e trasparenza valutativa. Non può essere, perciò, un irripetibile io in rapporto misterioso con l’infinito e con domande inesauribili: sfuggirebbe al micropotere.

Con una morsa del genere, dettata da funzionari che riducono la vita a un angolo dell’ufficio, la battaglia dell’io per la libertà parte davvero male. Ecco perché l’articolo di Galli della Loggia apparso sul Corriere della Sera il 30 settembre è da considerare con grande attenzione.



Riapre infatti la questione su chi debba avere a cuore l’educazione e il destino dei nostri studenti, e pone delle domande. Quale dev’essere l’identikit del docente dei prossimi anni? Come migliorare l’offerta formativa? Non con un nuovo acronimo, ma prendendosi a cuore i volti dei nostri adolescenti?

Con buona pace dei “lavoratori della conoscenza”, il complesso sistema scolastico attuale ha bisogno di professionisti ben formati e appassionati. Si possono fare battaglie sullo ius scholae, ma se poi non ci si prende carico realmente dei ragazzi di origine non italiana non succede nulla. Nella scuola è necessaria perciò la presenza di docenti abili nella mediazione culturale e nella conoscenza delle altre culture. I giovani docenti supplenti o i nuovi immessi in ruolo, poi, non possono essere abbandonati al loro buon senso, ma devono avere delle guide all’inizio del loro percorso. Un tutor pedagogico effettivo può essere un aiuto valido e significativo. C’è un problema però: bisogna riconoscere che qualcuno ha competenze maggiori e capacità riconosciute, cosa difficile da far digerire a chi – vedi le burocrazie di cui sopra – tende verso il basso.

Va incentivato e premiato il lavoro di chi fa reale innovazione didattica, motivando gli studenti alla conoscenza. Bisogna valorizzare lo studio di chi approfondisce i contenuti disciplinari. È sempre più raro sentire docenti che discutono di Leopardi o di un saggio di filosofia della scienza.

Non è possibile dimenticare, perciò, la forza trasformatrice del sapere. Una scuola senza docenti innamorati della bellezza culturale e della ricerca non fa crescere la conoscenza.

In sintesi, dunque, il sistema attuale non può restare fermo al passato: la società è cambiata. L’ egualitarismo basato sullo scatto di carriera identico per tutti è ormai vecchio: mortifica l’azione di chi ama la scuola con vero spirito di servizio.

È necessaria, perciò, una rivoluzione copernicana. Essa passa necessariamente dal riconoscimento professionale, giuridico ed economico di quei docenti che possono affrontare le nuove sfide. Non soggetti anonimi di una massa, ma volti precisi per una novità e un cambiamento.

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