La più acuta criticità incontrata dagli imprenditori nella conduzione e per lo sviluppo delle proprie aziende è la difficoltà di reperimento di personale qualificato. Non si tratta di una impressione, per quanto diffusa. È un dato, statisticamente misurabile: dalle nostre parti si attesta al 47%. Certo, non è così dappertutto; viviamo in un territorio che gode di uno standard elevato in termini di benessere economico, generato da molti fattori, tra cui ovviamente gioca un ruolo importante la presenza di numerose imprese, molte manifatturiere, mediamente di alta qualità, in molti casi delle vere eccellenze a livello internazionale nel proprio settore. La disoccupazione, dalle nostre parti, è scesa al 2,9%, è cioè praticamente inesistente, ma altrove le cose cambiano e, a fronte del dato sulla difficoltà di reperimento di personale più basso rispetto al nostro, il tasso di disoccupazione è più elevato: la media nazionale è al 9%, pur se fortunatamente in discesa, e ciò significa che ci sono aree o regioni in cui è alta (20% e più) e rappresenta un grave fattore di disagio sociale.
Ma, al di là dei numeri che variano da regione a regione, la compresenza di valori di difficoltà di reperimento di personale qualificato e valori del tasso di disoccupazione significativi non rappresenta una contraddizione; al contrario, è purtroppo il segno della presenza di un altro problema che affligge il nostro Paese: il disallineamento fra competenze richieste dal mondo del lavoro e quelle esistenti.
Questo quadro, già gravemente preoccupante, appare di colore ancor più cupo se si considera la questione demografica. Anche in questo caso non si tratta di impressioni: abbiamo tutti i dati e sappiamo anche che la situazione per quanto oggi appaia critica è destinata a peggiorare notevolmente. Infatti, oggi godiamo (si fa per dire) dei tassi di natalità di 20-30 anni fa. Da allora sono significativamente e progressivamente diminuiti.
Tornando al problema della difficoltà di reperimento del personale, dobbiamo concludere che la criticità è destinata ad aggravarsi. Del resto, questo trend in peggioramento è già riscontrabile negli ultimi anni: nel 2018, l’indice registrato a livello nazionale che indica la percentuale di professionalità difficili da intercettare, salito nel 2022 al 40,5%, era “solo” al 26,3%! (Fonte: Unioncamere-Anpal, Sistema informativo Excelsior, studio diffuso a marzo 2023). A Lecco, la difficoltà di reperimento di personale nel 2022 si è presentata per quasi una figura su due (47%) e coinvolgendo un ampio ventaglio di figure professionali, con una particolare accentuazione per i tecnici e gli operai specializzati, in 7 casi su 10 (Fonte: 13ª edizione “Rapporto dell’Osservatorio provinciale del mercato del lavoro” – Provincia di Lecco, Camera di Commercio di Como-Lecco).
Che fare? Gli immigrati, anche per colmare il gap demografico. È certo un tema importante, da affrontare anche indipendentemente dalla prospettiva di riempire i posti vuoti nei nostri ambienti di lavoro. Una politica seria di integrazione e formazione di queste persone è necessaria e urgente. In caso contrario abbiamo e avremo problemi crescenti di disagio sociale che possono sfociare in problemi di ordine pubblico.
Ma guardiamo a un altro dato: la dispersione scolastica è al 16% (media, con punte oltre il 20%). E ancora, guardiamo anche a quest’altro dato: i Neet sono al 23% (record europeo). Sono dati spaventosi, che segnalano un grave problema presente nel nostro sistema educativo/formativo. Ma, paradossalmente, sono anche una chiara indicazione del dove cercare risposte. Quanto cambierebbero i discorsi che stiamo facendo se questi indicatori fossero 0? Se avessimo 0 dispersione scolastica e 0 Neet? E allora parliamone. Allora parliamo di scuola.
Penso di dire una cosa ormai risaputa se riferisco la posizione medio-bassa della nostra scuola italiana nella classifica Ocse-Pisa, negli ultimi posti fra le nazioni europee. Interessante analizzare più in dettaglio il dato.
Innanzitutto questo posizionamento non solo non migliora nel tempo, ma dà qualche segno di peggioramento. Più interessante ancora notare che esistono differenze molto marcate tra le varie zone del Paese nonostante sia, il nostro, un sistema fortemente centralizzato e quasi totalmente in mano allo Stato. Ancora più sconvolgente è notare che, in termini di livelli di apprendimento, la nostra scuola primaria risulta in linea con la media europea, mentre differenze importanti emergono a livello della scuola secondaria di primo grado che aumentano e si aggravano nella scuola secondaria di secondo grado, producendo un inevitabile impatto sul livello di competenze della popolazione adulta, molto al di sotto delle medie internazionali, così come sul numero dei diplomati e sul loro livello di qualificazione. Quanto sopra viene confermato da un’ottima e recente ricerca della Fondazione Rocca (Scuola, i numeri da cambiare, 2022).
I dati dell’ultimo rapporto Invalsi gettano ulteriore luce su questo stato di cose (abbiamo dati Invalsi da 20anni e purtroppo mostrano sempre le stesse criticità). Ecco dunque la conferma della presenza di divari territoriali molto ampi che si acuiscono con il crescere dei livelli scolastici. Solo qualche accenno per esemplificare: il massimo divario percentuale fra studenti del Nord e del Sud nella scuola primaria è ancora contenuto (5,4% in italiano e 8,0% in matematica) mentre cresce passando ai livelli superiori, arrivando al 33,4% in italiano e al 39,3% in matematica.
Facendo una grossolana ma ragionevole estrapolazione viene da concludere che i bambini nascono uguali e sono uguali, ma frequentare la scuola li rende man mano e sempre più disuguali. Molto significativo notare che esiste una stretta correlazione fra Escs (Economic, Social, Cultural Status) e punteggi delle prove Invalsi, cioè più alto è l’indice di status, più alto è il punteggio delle prove. La conclusione evidente è che la scuola centralizzata, in mano allo Stato, non è in grado di ridurre le differenze socioeconomiche e culturali e non funziona assolutamente come “ascensore sociale”, semmai funziona al contrario.
I dati Invalsi ci dicono molte altre cose, ma non è questo il luogo di un’analisi completa. Un dato però, oltre a quelli citati, è opportuno segnalare: fra i ragazzi che escono dalle scuole superiori, il 48% in italiano e il 50% in matematica (media nazionale, ovvio ricordare che in alcune aree la percentuale è più alta) non supera il livello 3 che è il livello minimo accettabile, cioè necessario per poter proseguire negli studi. La prassi, poi, in molti casi è quella di proseguire comunque gli studi e, sempre la prassi, è quella di garantire la promozione a prescindere. Ma questo non cambia la sostanza delle cose, semplicemente dà qualche indizio per capire le successive e crescenti difficoltà di accesso al mondo del lavoro e la crescente popolazione di Neet.
Che fare? La scuola italiana è condannata a rimanere in questo stato, visto il cronicizzarsi dei suoi difetti? Direi che la stessa analisi dei dati mostra una possibile risposta o almeno una direzione di marcia. La ricerca della Fondazione Rocca già citata così si esprime nelle Conclusioni: “Questo stato di cose continua ad alimentare l’inerzia della più grande azienda del Paese, che sembra non riesca a cambiare direzione. Eppure questi risultati non dipendono dal livello di investimenti fatti in questi anni: l’investimento per studente è nella media europea. (…) occorre individuare un elemento dinamico, in grado di contrastare l’inerzia del sistema e di avviare un profondo processo di innovazione. Questo fattore può essere l’autonomia scolastica”.
A conclusioni simili giungono, e sono giunti anche in passato, diversi osservatori. Ricordo solo a mo’ di esempio il grande lavoro della Associazione Treellle, o il forte intervento di Franco Debenedetti in vista delle elezioni politiche del settembre 2022 (“Io voto chi cambia la scuola”, Il Foglio, 26 agosto 2022). Più recentemente è intervenuto anche Giuseppe Vegas, già presidente Consob, firmando un articolo per Il Messaggero (“Il cambio di rotta che serve nelle scuole”, 26 agosto 2023).
Autonomia, parità, libertà di educazione. Sono queste le direttive per una riforma della scuola che possa “contrastare l’inerzia del sistema e avviare un profondo processo di innovazione”. Sono caratteristiche praticamente assenti nel nostro sistema scolastico e al contrario presenti in misura maggiore, o molto maggiore in sistemi scolastici di altri Paesi europei e non, i quali, guarda caso, si dimostrano più performanti del nostro.
Tutto ciò, in fondo, si mostra vincente perché conforme alla natura dello stesso processo educativo. L’educazione infatti è, nella sua essenza, quel rapporto fra docenti e alunni che può fare accadere il miracolo della scoperta, della re-invenzione di ciò che ci è stato consegnato dalla storia, dall’arte, dalla cultura, dalla ricerca scientifica perché possa essere valorizzato e messo a frutto. Educare è introdurre il giovane nella realtà totale, cogliendo il valore del passato e del presente, perché possa costruire il futuro suo e di tutti, con il proprio unico ed irripetibile contributo. Non ci può essere istruzione senza educazione e non è possibile educare senza libertà, senza passione al bene e alla libertà dei propri alunni. Senza libertà non ci può essere conoscenza vera e senza passione non si può accendere il fuoco della curiosità.
Per questo motivo lo Stato ha il compito di dare le regole generali e di controllare che siano garantiti i livelli essenziali delle prestazioni, cioè di creare le condizioni perché chi ha il compito di insegnare lo possa fare al meglio. Occorre uscire da un sistema centralistico, ingessato, burocratizzato, che invece di valorizzare il contributo delle persone (insegnanti, studenti, famiglie, dirigenti, personale amministrativo in connessione con il contesto economico e sociale attorno alla scuola) lo mortifica. Anche il tema della parità si pone a questo livello. Non si tratta di difendere un recinto, ma di costruire un contesto in cui sia possibile migliorare la qualità di ogni singola scuola, statale e non statale.
Detto questo, occorre anche prendere atto che leggi sulla autonomia e sulla parità esistono ormai da più di 20 anni (autonomia 1997, parità 2000). Perché non funzionano? Perché non vengono applicate? Non sono buone leggi? Vanno cambiate? Premesso che tutto è perfettibile, non è questo certamente il motivo. Il motivo va ricercato nelle “forti resistenze” (cfr. Conclusioni della ricerca della Fondazione Rocca) di carattere culturale, politico e sindacale esistenti all’interno del mondo della scuola, che, come è stato ricordato, è la più grande azienda del Paese. Non è un caso che i molti ministri dell’Istruzione che si sono succeduti negli ultimi decenni e che hanno tentato di varare riforme piccole o grandi (certamente grandi nelle intenzioni) con la buona intenzione di migliorare la qualità della scuola, abbiano accuratamente evitato di affrontare in modo efficace il nodo dell’autonomia reale e della vera parità. Ora il ministro Valditara, parlando al Meeting di Rimini, ha annunciato la chiara volontà politica di realizzare una riforma che metta finalmente su un piano di pari dignità il percorso delle scuole tecniche e professionali rispetto al percorso liceale. Ugualmente si è impegnato a realizzare la completa parità.
Le parole del ministro e le azioni del Governo rappresentano una oggettiva novità rispetto al recente passato e alimentano aspettative concrete. Il progetto di riforma che prevede la durata di quattro anni per gli istituti professionali, con possibilità di accesso ai due anni di Its Academy, è un forte segnale. Similmente alcuni provvedimenti in favore delle scuole paritarie (in primo luogo rendendo validi per l’abilitazione gli anni di insegnamento presso le scuole paritarie e, poi, con maggiori fondi a loro destinate) mostrano un’attenzione non solo di parole al tema. Ma non basta, non basterà a vincere le “forti resistenze” che difendono lo “status quo”.
Occorre che si metta in moto un terzo fattore, un fattore esterno al mondo della scuola. Utile, in questo senso, la proposta avanzata da Giuseppe Vegas (e da altri con lui e prima di lui): mettere in concorrenza tra di loro gli istituti scolastici, innescando così processi di innovazione e miglioramento, attraverso la dotazione alle famiglie di un voucher finanziato con il taglio dei trasferimenti di denaro pubblico alle scuole, voucher “da spendere per pagare il costo dell’istruzione in qualunque scuola a loro piacimento”. Non è difficile immaginare quali “forti resistenze” saranno messe in campo per ostacolare questa soluzione.
Il terzo fattore, il fattore esterno che si deve mettere in moto per realizzare una vera riforma della scuola (vedi sopra) è il mondo delle imprese, il mondo economico in generale. Non a caso, fra quanti hanno sviluppato analisi e proposte per riformare e migliorare la scuola, ho citato persone del mondo economico e delle imprese.
Il mondo delle imprese, anche attraverso i propri organi di rappresentanza, è chiamato a far valere il proprio peso politico per cambiare la scuola. Una vera riforma della scuola dovrà necessariamente dare il giusto riconoscimento e il giusto spazio ai percorsi tecnici e professionali, conferendo loro la pari dignità dei percorsi liceali, ma questo non potrà avvenire senza il concreto e impegnativo coinvolgimento delle imprese. Non solo: non potrà avvenire se nella scuola non si realizzano autonomia, parità, libertà di educazione. E ancora una volta questo dipenderà dal fatto che questi obiettivi siano stati assunti come propri dal sistema delle imprese e dal mondo economico.
Sappiamo tutti che il futuro di una società dipende dal proprio sistema scolastico. I problemi che abbiamo segnalato sono gravi e il nostro sistema scolastico è oggi assolutamente inadeguato ad affrontarli, è quindi in forse il nostro futuro. Rischiamo infatti la marginalizzazione rispetto al contesto mondiale, con la decadenza del sistema produttivo e del benessere sociale. Le riforme cui abbiamo accennato sono quindi assolutamente necessarie ed urgenti. Il contesto politico apre a prospettive di cambiamento più concrete rispetto al passato. Il ruolo delle imprese e del mondo economico può essere decisivo. L’impegno a lavorare nella direzione di una riforma globale della scuola è quindi un impegno morale. Non assumerlo potrebbe essere mortale.
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