Ci sono molti numeri in questi giorni e nessuno di essi riguarda situazioni “ordinarie”; tutti descrivono uno stato eccezionale, destinato a protrarsi. Credo si tratti di un’evidenza elementare; in questo momento dipendiamo tutti, se sani e a casa, dal lavoro di chi ci fornisce i servizi essenziali, e se siamo malati (di meno se in quarantena a casa, drammaticamente di più se ricoverati in ospedale) dal lavoro di chi ci assiste anche per avere una speranza di vita.
C’è un altro numero, piccolo e anche questo destinato a crescere; sono i 24 giorni di sospensione delle attività didattiche in Lombardia, contando tutti i giorni del calendario, fino al 22 marzo 2020; un numero che se ne porta dietro uno molto più grande, 7.599.259 studenti; il totale degli studenti iscritti alla scuola per l’anno scolastico 2019/2020, dalla scuola dell’infanzia fino alla secondaria di secondo grado, in l’Italia. A questo numero va aggiunto quello del personale docente (835.489 per l’a.s. 2019/20), più ovviamente il personale amministrativo, dirigente ed Ata delle scuole statali. Nel computo va aggiunto anche il personale docente, amministrativo e dirigenziale e di altra mansione delle scuole paritarie. A tutto questo va aggiunto il mondo degli educatori, che seguono i loro assistiti a scuola o a domicilio.
A casa. Ora siamo tutti a casa. O perlomeno siamo a casa se non siamo in ospedale. E se siamo a casa stiamo erogando o ricevendo attività formativa a distanza, oppure stiamo gestendo attività formativa a distanza (nei ruoli che competono ad ognuno) e, se del personale amministrativo, preparando le buste paga di marzo, dopo aver preparato quelle di febbraio. Non mi risultano infatti provvedimenti di cassa integrazione o obbligo di ferie per i docenti che dal 24 febbraio (o in altra data se non in Lombardia) non possono recarsi a scuola per la sospensione delle attività didattiche. Mi risultano, di contro, simili provvedimenti per favorire il distanziamento sociale e il “iorestoacasa” per molte categorie di lavoratori, e il tutto prima del decreto “Cura Italia” che è solo ora in fase di approvazione. Sui 25 miliardi previsti ci sono circa 80 milioni per la scuola, sostanzialmente legate al tentativo, certo molto complesso da gestire al momento, di ridurre il digital divide che non è solo geografico ma sociologico.
L’ordinanza ministeriale del 17 marzo ha normato l’attività formativa a distanza definendone la natura e indicando come parte essenziale dell’attività anche la valutazione; è seguita la protesta delle sigle sindacali, che hanno in sostanza rigettato la legittimità dell’ordinanza e chiesto un incontro, e poi in un rapido fuoco di fila le dichiarazioni di dirigenti scolastici con lo slogan “lasciateci lavorare” e la risposta (onestamente assai debole) prima del premier Conte e poi del ministro Azzolina relativa al prolungamento della sospensione oltre il 3 aprile, e infine i commenti, questa volta per bocca della sola ministra, della validità dell’anno scolastico in presenza di un’attività didattica a distanza validata e che quindi può consentire – ovvia chiosa finale – la chiusura dell’anno scolastico in corso senza proseguire in estate.
In sostanza, non sapendo quando si riaprirà, occorre dare regolarità all’anno scolastico fornendo attività didattica identificabile, vale a dire valutata. In tal modo si potrà scrutinare e dare regolarità all’anno scolastico, vista che l’obbligo dei 200 giorni è già venuto meno. Controprova di questo è l’attività valutativa (compiti in classi e verifiche orali) già iniziata anche prima dell’ordinanza del 21 marzo. Non è possibile al momento quantificare questa attività, ma il fatto che si sia avviata anche prima dell’ordinanza, a seguito dell’iniziativa dei singoli istituti, indica una ragionevolezza da parte di chi l’ha intrapresa (avendone i modi e i mezzi) sintetizzabile in “chi può, faccia”, a cui ben si sposa in questo momento tragico un “chi non può si attivi” e un “chi-può e non fa, taccia”.
Oggi, dalle proprie case, i cantori dell’International Opera Choir hanno intonato un virtuale “Va pensiero”. Senza una stecca: la stecca l’hanno presa i sindacati, l’hanno presa i 249 “malati” in Campania nell’ambito sanitario, tutti quelli che antepongono l’economia alla vita, cosa non nuova. Non steccano tutti quelli che, come ricordato da taluni dirigenti scolastici, “fanno il loro dovere”.
È tuttavia indubbio che lasciare il mondo-scuola senza risposte precise, magari proprio per il timore di levate di scudi, è moralmente riprovevole e soprattutto, nella drammaticità e nell’incertezza della situazione attuale, irrealistico. La scuola non riaprirà; non ho gole profonde che mi abbiano informato in tal senso, ma la situazione che viviamo non è temporanea, provvisoria. È il nostro essere ora. E più passano i giorni, più le domande relative alla scuola aumentano.
Qualche domanda relativa alla docenza via telematica si impone: pur essendo decaduto l’obbligo dei 200 giorni di lezioni, i docenti riprenderanno a erogare attività formativa a distanza come da orario, apponendo regolare firma sul registro on line? Ovviamente con una disposizione che modifichi l’attuale ordinamento che prevede che essa venga apposta in presenza. Essendo ciò impossibile, ma non essendo, invece, decaduto l’obbligo della prestazione lavorativa (a meno che il governo non decida di reperire fondi straordinari sospendendo i salari a tutti coloro che lavorano nella scuola dichiarandone non la sospensione, ma la chiusura per questo anno scolastico), il Miur non dovrebbe forse intervenire in tal senso?
Anche la mia libertà di movimento è un diritto sancito dalla Costituzione, ma le varie ordinanze che si sono susseguite l’hanno fortemente limitata: non augurandomi certo di dover uscire per motivi gravi di salute, mi resta la libertà di fare la spesa nel mio comune. Perché tale limitazione è legittima anche giuridicamente, pur se dolorosa, invasiva, devastante psicologicamente per moltissimi, e invece non è possibile per la scuola variare il passo, ed essere flessibile? Perché non è possibile prevedere la firma sul registro on line, che comporta segnare le assenze e presenze degli studenti? E se qui mi viene citato il digital divide, allora ricordo che la direzione dovrebbe essere quella di colmarlo, non di difenderne l’esistenza.
Quanti studenti, almeno delle superiori e anche delle medie, non hanno uno smartphone? Non sanno usare una app? E se per gli ordini di scuola inferiore la gestione dovrebbe essere diversa, perché non può essere diversa? Forse perché il docente delle elementari direbbe “non è giusto”? Non è possibile accettare e quindi istituzionalizzare una forma anche ridotta di scuola, purché ci sia scuola? Non possiamo per una volta nella scuola lavorare bottom up, con chi sta ai piani alti che non solo (costretto dalla contingenza storica) accetta l’iniziativa, ma la fa diventare norma?
Venendo ad altri aspetti futuri, sempre nell’ipotesi di una non riapertura delle scuole, come avverrà la chiusura formale dell’anno? Scrutini on line con firme digitali? Consegne digitali delle pagelle? Esame di Stato da tenersi in data da destinarsi (l’unica cosa che non si può chiedere al Miur è una data, perché nessuno ha la data di fine di questa pandemia) ma secondo una modalità che si può comunicare da subito, sulla base dell’attività didattica a distanza? Finora si è sentito parlare della decadenza dell’obbligo della rilevazione Invalsi (per ovvie ragioni, dato che l’istituto può gestire la mole delle prove solo grazie alla collaborazione degli istituti) e di quella dell’obbligatorietà del Pcto in nome dell’evidente impossibilità di completare le ore previste soprattutto nei corsi professionali.
Invalsi e Pcto sono appendici dell’esame di Stato e non hanno nulla a che fare con l’attività didattica a distanza. L’esame sono le due prove scritte e il colloquio nella sua parte di proposta allo studente, parte che, decadute le buste, decaduto un ministro e fattone un altro, non è stata affatto definita prima della sospensione delle attività didattiche; siamo ancora in attesa. In realtà questa parte del colloquio andrebbe definita, e subito, visto che è quanto di più facile può essere presente nel circolo virtuoso di spiegazione, con lezione segmentata, partecipata, flippata o chi per essa, e interrogazioni orali.
Oppure il Miur potrebbe lavorare attivamente sulla preparazione degli studenti alla prima e alla seconda prova, predisponendo prove simulate (quelle del nuovo formato sono poche) a cui tutti gli studenti possono accedere da casa. Non avrebbero valore ai fini della valutazione, ma sarebbero utilissime sia a studenti che a docenti ai fini della preparazione. “Il Miur c’è”, potrebbe essere lo slogan, e anche se non potranno dare origine alla valutazione darebbero a tutti la certezza che si prevede un “decorso normale del malato”. Oppure il silenzio indica la già conclamata rinuncia ad una prova completa nelle sue tre parti, ma frena la solita temuta alzata di scudi? L’accusa di inadempienza?
Ci serve qualche risposta. Non possiamo averla sulla salute dei nostri cari, sullo stato dell’economia, sulla tenuta morale e psicologica di una nazione, ma su come la scuola possa gestire l’eccezionalità divenuta normalità, possiamo certo ottenere qualche risposta, anche solo relativa a qualcuno degli aspetti sollevati. Nella saggia convinzione che il meglio è nemico del bene.