Come quotidianamente sperimentiamo, ci sono disposizioni di natura emotiva, relazionale, temperamentale negli alunni – e più in generale nelle persone – che esercitano un’importante influenza sullo sviluppo del potenziale cognitivo e sulla partecipazione alla vita attiva. Da qualche tempo anche su tali disposizioni (in verità non con la medesima intensità con cui si sono indagati gli esiti dell’apprendimento) si è finalmente concentrata l’attenzione degli studiosi. L’Ocse le definisce qualità socio-emozionali, altri esperti preferiscono distinguere tra cognitive skills e non-cognitive skills, altri ancora si tengono più sul generale parlando di soft skills. Qualcuno si porta più in là con la denominazione di character skills.
La varietà di definizioni documenta come il territorio delle disposizioni non cognitive della persona sia ancora aperto e insufficientemente esplorato. Il punto di mediazione più recente inquadra le non cognitive skills o socio-emotional skills in cinque categorie così definite dalla ricerca sul tema dell’Ocse compiuta nel 2023: performatività (perseveranza, responsabilità, autocontrollo, e motivazione al raggiungimento dei risultati); regolazione emotiva (resistenza allo stress, controllo emotivo, e ottimismo); relazione con gli altri (assertività, socievolezza, ed energia); apertura mentale (curiosità, creatività, e tolleranza) e collaborazione (empatia, fiducia, e cooperazione). Una catalogazione più articolata, ma non distante da quella a suo tempo proposta da McCrae e Costa, i due studiosi statunitensi che per primi hanno definito i tratti di personalità noti come Big Five.
A riportare ora al centro dell’attenzione del mondo dell’educazione e scolastico il tema delle non-cognitive skills sono tre eventi che per singolare coincidenza si sono incrociati negli ultimi tempi.
Il primo è la sopra citata ricerca dell’Ocse i cui risultati sono stati resi noti recentemente. Condotta su un campione di circa 18mila studenti di 10 anni e 52mila studenti di 15 anni, per una rappresentazione di circa 630mila bambini di 10 anni e 3 milioni di 15 anni frequentanti le scuole dei 16 siti interessati all’inchiesta (dalla Bulgaria alla Finlandia, dall’Indonesia alla Colombia, dal Brasile alla Spagna, compreso un campione italiano dislocato in Emilia-Romagna e a Torino pari a circa 3mila quindicenni) essa costituisce un’ampia e documentata rassegna su come le socio-emotional skills giochino un ruolo importante nella vita scolastica e che perciò non si possa fare a meno nel valutare le performance degli allievi. E che la notizia giunga da una ricerca Ocse, e cioè dall’istituzione che per quasi un quarto di secolo ha predicato il primato della competenza allo stato puro, non è un fatto da poco.
Confesso che di fronte alle ricerche dell’Ocse e altre simili resto ammirato dalla raffinatezza con cui i dati raccolti sono accorpati, confrontati, scandagliati, approfonditi sotto ogni aspetto, così da restituire un quadro d’insieme in grado di fotografare minuziosamente la realtà indagata. E anche nel caso delle competenze socio-emozionali questo giudizio è ampiamente confermato.
Ma a chi vive sulla frontiera quotidiana dell’educazione scolastica la raffinatezza esplorativa, per quanto apprezzabile, non basta. Più d’uno – e non solo quanti sono in via pregiudiziale avversi alle rilevazioni extra moenia – nutre qualche ragionevole dubbio che sia possibile semplificare nell’elaborazione statistica quella che è la vita reale di alunni e docenti e che, invece, non si corra il rischio di confondere – in un eccesso razionalistico – gli esiti quantitativi con la qualità dell’esperienza educativa.
Per superare questo obiettivo limite occorre partire – mi rendo conto di dire una cosa scontata, ma vale la pena ripeterla – dai dati delle ricerche quantitative per predisporre piani di intervento, così da passare dal “come stanno le cose” al “come si migliorano le cose”. In tal senso va il documento presentato a metà maggio al ministero dell’Istruzione e del Merito per iniziativa di un nutrito gruppo di enti e associazioni di carattere sociale ed educativo dal titolo La dimensione socio-emotiva come pilastro del sistema nazionale di Istruzione e Formazione. Si tratta di un testo molto interessante nel quale si trovano considerazioni frutto non solo di elaborazione teorica, ma poggiate su esperienze reali.
Secondo questo testo occorre muovere dalla formazione degli insegnanti, perché senza docenti capaci di valorizzare l’immateriale che esiste in ogni allievo non si va da nessuna parte: “Lo sviluppo della competenza socio-emotiva degli insegnanti e dei dirigenti deve essere un pilastro centrale della formazione iniziale e dell’aggiornamento professionale; la formazione socio-emotiva degli insegnanti e dei dirigenti avviene secondo le logiche dell’apprendimento trasformativo ed esperienziale”.
Emergono anche altre raccomandazioni utili, due in particolare: “La cura socio-emotiva richiede l’esercizio sistematico e sistemico della logica della costruzione di comunità, ad ogni livello: all’interno della classe, nelle relazioni con gli insegnanti e tra gli insegnanti, nelle relazioni tra scuola e famiglie e tra scuola e territorio, e, ove opportuno, anche a scale più ampie di distretto, città, regione, stato e comunità internazionale e globale”.
E ancora: “Focalizzare il curricolo sulle abilità socio-emotive è fondamentale anche per valorizzare il potenziale della tecnologia ed evitarne i rischi; l’utilizzo delle tecnologie di apprendimento, incluse quelle emergenti basate sull’Intelligenza Artificiale, costituisce a questo proposito non solo una necessità dettata dal contesto ma una fonte di opportunità educativa”.
Un altro utile contributo al tema socio emozionale di natura più teorica, di cui vorrei far parte, in conclusione, i lettori viene da un recente volume di due studiose dell’Università di Torino, Sara Nosari ed Emanuela Guarcello, dal titolo Quali skills per l’umano? Un contributo al dibattito non cognitivo/cognitivo (Mondadori Università, 2024). Il libro merita attenzione per due principali ragioni. La prima è che costituisce un apprezzabile tentativo per dare un po’ d’ordine alla frammentazione definitoria delle non-cognitive skills – per le autrici non basta l’inventario dell’Ocse –, individuandone per ciascuna di esse le radici culturali, i fondamenti, le caratteristiche qualificanti, le suggestioni positive. Il libro contribuisce in tal modo a disegnare in modo rigoroso la topografia delle ragioni e della spendibilità delle risorse non cognitive della persona.
Ma il merito maggiore del volume è la denuncia del rischio che la risorsa non cognitiva – al di là di ogni migliore intenzione – se guidata solo dal criterio dell’efficienza e dell’utilità pratica si possa pervertire in un’operazione che non aiuta a crescere persone, ma semplicemente a formare, nel migliore dei casi, qualificati professionisti. La questione delle skills in realtà costituisce una imperdibile occasione per riscoprire l’educazione dell’umano, sfuggire all’idea (oggi assai diffusa) che la “scuola deve formare” (leggi: al saper fare), che – in definitiva – senza una direzione di senso non ci sono che il vuoto di un’infinita e drammatica perdita di tempo e una mesopotamica alluvione di parole.
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