L’altro è un bene per me. Sembra poco, quasi una frase fatta, ma è tutto. L’alunno disabile a livello mentale è un bene per me: ha una ragion d’essere più grande di ogni misura. Nella sua costante fatica, infatti, c’è un desiderio strano e mai domo che attraversa tutto. Il suo voler stare con gli altri in tutte le circostanze smaschera il nostro solipsismo sazio di vuoto. Vuole esserci e stare nel gruppo, nonostante tutto e tutti e i buoni consigli dell’esperto di turno.
E l’ultimo della classe, quello che ha sbagliato indirizzo di studi e non ne azzecca una, ha una ragion d’essere che è buona per me. Dice a tutti con il suo misterioso esserci che anche noi siamo ultimi, anche quando nascondiamo il nostro pianto segreto e le nostre sconfitte clamorose. I suoi fallimenti non somigliano ai nostri errori finiti nell’armadio dimenticato della vergogna?
E lo studente ferito dalla vita per un lutto o un problema psicologico ha anche lui un significato che lo supera. La sua domanda: “perché proprio a me?” sconvolge analisi e discorsi. Non si può affrontare con saggi consigli o elucubrazioni mentali, ma con uno sguardo nello sguardo, con una sommessa vicinanza.
Non si tratta, allora, di interrogare, ma di guardare volti che interrogano e chiedono.
Chi sono gli altri che incontriamo, con cui viviamo, con cui ci incrociamo o che passano fugacemente accanto a noi? Per cercare di capire il loro segreto, si possono guardare le loro vite dallo spioncino o far finta di essere sorpresi da ciò che mettono in scena nel Grande Fratello mediatico. Post, selfie, Instagram, TikTok. Le loro esistenze possono, poi, essere utilizzate e spese ovunque. Carne da cannone per il potente di turno, da sacrificare all’idolo del potere. Possono anche consumarsi nel nostro Occidente in viaggi senza guardare, o in successi patinati ed elogiati dai più. Possono talvolta passare in una mediocre trascuratezza che fa venire in mente il saggio di Ludwig Binswanger, Tre forme di esistenza mancata: esaltazione fissata, stramberia, manierismo (Bompiani 2001).
Le vite degli altri possono però, talvolta, irrompere e scoppiare nella nostra vita. Un imprevisto, l’insolito imprevisto guastafeste che sovverte la nostra volontà di controllo su tutto. Un pianto, un dolore, un urto esistenziale, una domanda posta a noi, proprio a noi. Siamo interpellati per il ruolo che ricopriamo, ma nel profondo del nostro cuore. Ci chiama un ET, prima non visto, che chiede casa e calore umano. Un appello che ci convoca, chiedendoci un passo.
Le vite degli altri, infatti, non sono come pensiamo, come vogliamo e neanche come crediamo. Sono vite tessute da un filo invisibile che ci sfiora, parlandoci. E il bello è che le loro esistenze si presentano in tutti gli ambiti: la scuola, ovviamente, i rapporti liberamente scelti, il tempo libero, ecc. Non possiamo toglierceli di dosso, neanche quando siamo da soli: ritornano nei nostri pensieri.
Cosa fa la nostra ragione di fronte a tale eccesso di presenza? Anatomizza e viviseziona per diminuire e sminuire. Spesso, si restringe, si chiude in difesa. Rinsecchisce aridamente gli altri. Ha bisogno di confini sicuri e di un metro certo, per misurare e catalogare. Non sa accettare la sfida della differenza e perciò usa l’anestetico dell’indifferenza.
L’indifferenza, poi, non è mai vera indifferenza. È omologazione. Meglio pensare come tutti e dire ciò che ripete l’opinione comune, così si sta nel comfort della maggioranza. Meglio non vedere chi affoga nel Mediterraneo e cambiare canale. Si è mai sentito il suo grido? Cosa resta, allora, della lezione di Lévinas, il quale ricordava che il debolissimo è segno dell’Altissimo? C’è però chi non ci sta a subire l’inganno e ritiene, per esperienza provata, che la ragione sia invece un’umile accoglienza della terra che è l’altro e che siamo noi.
All’inizio della giornata, perciò, l’appello scolastico, chiamando uno ad uno gli studenti con il loro nome unico, è la viva memoria dell’essere appellati insieme.
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