Forse hanno davvero ragione coloro che sostengono che l’alternanza scuola lavoro (Asl), introdotta quattro anni fa con la legge 107/2015, la cosiddetta “Buona Scuola”, sia stata archiviata troppo in fretta e senza neppure misurarne e approfondirne i reali risultati sul campo. Soprattutto osservando e – viene proprio il caso di dirlo – imparando dalle, non poche, best practices messe in atto da diversi istituti, con la fattiva collaborazione delle imprese, in tutta Italia.
A tal proposito, giova ricordare che la Legge di bilancio 2019, targata governo giallo-verde, è intervenuta sull’alternanza scuola-lavoro – ribattezzata “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento” (Pcto) – riducendone risorse e numero minimo di ore da svolgere: 90 ore nei licei; 150 ore negli istituti tecnici; 210 ore negli istituti professionali. Sulla nuova alternanza grava altresì il parere negativo del Consiglio superiore della pubblica istruzione (Cspi), che a fine agosto ha invitato il Miur a modificare, in modo significativo, il testo delle “linee guida” al fine di eliminare le criticità evidenziate; tenere conto dei pareri già espressi dallo stesso Cspi su queste tematiche; ottenere un testo chiaro e di facile applicazione da parte delle scuole.
Il dubbio, legittimo, sulla precoce messa in soffitta dell’Asl si è palesato in maniera plastica alla presentazione dell’indagine “Giovani e lavoro”, promossa da Nestlé e illustrata settimana scorsa a Milano nel corso dell’incontro “La scuola prepara al lavoro. Vero o falso? Ecco cosa ne pensano gli italiani”, in occasione dell’edizione 2019 della VetWeek, la Settimana europea della formazione professionale.
Che cosa è emerso da quella ricerca condotta da Toluna su un campione di 800 giovani tra i 17 e 18 anni, 200 genitori e 100 professori delle scuole superiori? Un coro abbastanza unanime e concorde: studenti (69%), genitori (71%) e docenti (78%), si sono infatti dichiarati soddisfatti del livello di insegnamento delle scuole secondarie in Italia. Non a caso, il 55% degli studenti intervistati – appartenenti agli ultimi due anni della scuola superiore e dunque coinvolti nell’alternanza scuola-lavoro – ha già deciso che andrà all’università e sceglierà in seguito la professione da intraprendere. Ma, nello stesso tempo, l’indagine ha evidenziato che il livello di insegnamento rimane ancora troppo teorico, non abbastanza improntato all’inserimento nel mondo del lavoro dei ragazzi e non abbastanza attento alle esigenze delle aziende.
In buona sostanza, servirebbero lezioni più pratiche (lo dice il 58% degli studenti intervistati) e laboratori e simulazioni lavorative anche in aula (per il 50% degli studenti e per il 45% dei docenti). E a questa esigenza sembra in grado di rispondere con efficacia proprio la “vecchia” alternanza scuola-lavoro, che ha coinvolto il 62% degli studenti, confermandosi la principale attività di preparazione all’ingresso nel mondo del lavoro. Altri strumenti di orientamento sono gli incontri in aula con professionisti (29%), le visite in azienda (25%) e gli stage curricolari (24%). Durante il percorso di alternanza il 68% dei ragazzi è stato davvero affiancato dal personale, scoprendo le diverse figure e mansioni di un’azienda, anche se il 26% ha confessato di aver eseguito lavori poco formativi, oltre che gratificanti, come l’inserimento dati e accoglienza/receptionist (13%).
Studenti, docenti e genitori sono, dunque, convinti che la scuola italiana debba e possa migliorare nelle attività di preparazione dei giovani al loro ingresso nel mondo del lavoro, perché le attività di formazione che fanno da ponte tra scuola e aziende, pur riconosciute come fondamentali per il futuro professionale dei ragazzi, sono ritenute poco soddisfacenti.
E qui non può non essere sottolineato un corollario su cui occorre riflettere. In un Paese che ancora oggi registra in Europa il record negativo di Neet, cioè di giovani che non studiano, non lavorano e non cercano un impiego (fonte: Unicef Italia), e in un Paese che negli ultimi dieci anni ha perso 250mila giovani, bruciando addirittura 16 miliardi, cioè un punto di Pil (fonte: Fondazione Leone Moressa), la marcata distanza tra la sfera scolastica e quella lavorativa porta il 54% dei giovani ad esprimere forte preoccupazione per il futuro lavorativo nel nostro Paese. E soprattutto, in un giovane su cinque, a immaginare una carriera fuori dall’Italia.
Non a caso, a commento della ricerca, Giacomo Piantoni, direttore risorse umane di Nestlé Italia, ha sottolineato come investire nella formazione dei giovani sia strategicamente decisivo, perché “i giovani rappresentano il futuro del paese”. Proprio in Italia, dal 2014 a oggi, grazie al programma Nestlé Needs YOUth sono stati assunti più di 1.600 under 30, sono più di 6mila quelli che hanno svolto un’esperienza di alternanza scuola-lavoro in azienda e complessivamente sono stati oltre 27mila i giovani italiani coinvolti.