Gli italiani, è risaputo, sono tra i più parsimoniosi risparmiatori del mondo, tanto che all’enorme debito pubblico fa riscontro uno straordinario tesoro privato, a cui si accompagna una percentuale di famiglie proprietarie della loro casa che non ha eguali nel mondo. E questo malgrado diverse banche ce l’abbiano messa tutta per disincentivare il risparmio privato, facendo evaporare soldi messi da parte con l’onesto lavoro e i sacrifici di intere generazioni.



Il ripetersi di questi drammi è probabilmente il motivo che ha spinto il Parlamento e il Governo a fare qualcosa per rendere più accorti i futuri risparmiatori. Dovranno farsene carico le scuole di ogni ordine e grado: dal prossimo anno ai già tanti argomenti che andranno a comporre la risorgente educazione civica si aggiungerà anche l’educazione finanziaria. 



Alcuni istituti già da tempo si sono cimentati, grazie alla disponibilità di associazioni del settore, con attività mirate a formare i ragazzi in questa prospettiva. Purtroppo i dirigenti scolastici hanno dovuto chiudere nel giro di pochi anni questi percorsi, a causa della noia terribile che spesso avvolgeva le classi di fronte agli esperti del settore. Persone, intendiamoci, preparate nel merito e anche nella trasmissione dei loro saperi, che però si rivolgevano probabilmente al pubblico sbagliato.

Non sarebbe semmai stato più logico farli parlare con le famiglie dei ragazzi? Con gli adulti, infatti, l’informazione su questo tema si può incontrare con un’esigenza attuale e con l’opportunità, per così dire, di tradurla in esperienza pratica. Aveva a che fare con un più vivo interesse diretto la tradizione che i nonni e gli stessi genitori regalassero ai bambini, non appena questi iniziavano a saper “fare di conto”, un salvadanaio in cui via via accumulare un po’ di monete. Questo li abituava a risparmiare e a misurare con attenzione quali fossero le loro priorità una volta aperta la loro piccola cassaforte. Era un avviamento a scegliere gli “investimenti” più soddisfacenti e duraturi.  



Con queste considerazioni siamo entrati nel cuore di un problema non nuovo, ma che il ceto politico, insieme a tutti i funzionari e i consulenti di cui si serve, sembra tranquillamente ignorare. Che è questo: di quante esigenze della società può farsi carico la scuola?

Secondo buon senso solo delle più basilari; secondo molti politici, pedagogisti e rappresentanti di questa o quella categoria, di tutte quelle che una ricerca o qualche episodio mettono via via in primo piano. Aumentano i bambini obesi? Non ci deve pensare il pediatra, ma la scuola con l’educazione alimentare. Il futuro dei giovani è incerto? La scuola coltivi lo spirito di iniziativa e l’imprenditorialità. C’è il dramma della violenza sulle donne? Lo si affronterà con l’educazione alla parità di genere. Per lottare contro mafia, camorra e ’ndrangheta ecco l’educazione alla legalità, che simbolicamente culmina ogni anno con il viaggio da Civitavecchia a Palermo della “Nave della legalità” con a bordo 1500 studenti (spesa dichiarata: 140mila euro). Un elenco certamente incompleto comprende anche l’educazione affettiva, l’educazione alla pace, alla sostenibilità, alla memoria, alla cittadinanza mondiale e a quella digitale (qualsiasi cosa voglia dire), l’educazione al volontariato, alla salute e al benessere, alla tutela delle eccellenze agroalimentari, più una formazione di base in materia di protezione civile e di primo soccorso…

Che dire di questo delirio di onnipotenza che si cerca di inoculare nella scuola? Di certo fa riflettere la radicale svalutazione, in questo cumulo di “educazioni”, della vecchia “buona educazione”, che è poi l’indispensabile base comune di molte di esse. Da decenni la scuola ha cominciato a vergognarsi di esigere un comportamento corretto, a considerare la “disciplina” come un arnese del passato invece che come la cornice irrinunciabile dell’apprendimento, a sconsigliare le sanzioni per incoraggiare il “dialogo” sempre e comunque. Si è arrivati spesso a transigere anche su insulti, violenze, occupazioni, bullismo;  per non parlare di quella micro-maleducazione endemica che fa perdere tempo ed energie agli insegnanti, tra i quali lo stress professionale galoppa indisturbato.

Un secondo tipo di svalutazione riguarda le materie scolastiche, che dovrebbero costituire il compendio del nostro patrimonio culturale da trasmettere alle nuove generazioni. Senza più programmi prescrittivi, si tende a perdere il senso di ciò che è importante e di ciò che è secondario nell’insegnamento. E non essendo l’orario estensibile all’infinito, la conseguenza dell’aggiunta di nuove materie  non può che risolversi in un danno per le discipline fondamentali.

Infine, non si era detto e ripetuto negli scorsi decenni che la scuola non poteva più essere l’unica “agenzia formativa” e che c’erano tanti altri modi e canali di apprendimento? E allora perché sovraccaricarla sconsideratamente di tutte le vere o immaginarie necessità educative?

(Giorgio Ragazzini – Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità)