Il 12 gennaio la Camera ha approvato il disegno di legge “Disposizioni per la prevenzione della dispersione scolastica mediante l’introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico”, che prevede una sperimentazione triennale nella scuola secondaria di primo e secondo grado di competenze “non cognitive” quali, esemplifica il testo, “amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale”, non come una nuova materia, come paventa chi parla già di un “voto” che si presta ad infiltrazioni ideologiche, ma piuttosto come un aspetto, una “curvatura” direbbe il lessico pedagogichese del ministero, nell’ambito del normale insegnamento.
Su queste pagine sono già intervenuta per dire che, a mio parere, la contrapposizione fra cognitivo e non cognitivo è scorretta, e questo tipo di competenze sono in realtà già presenti come “dimensione tacita” nella pratica quotidiana di molti insegnanti: si tratta allora di evidenziarle e valorizzarle.
Nella legge trovo una serie di lacune, o meglio di domande senza risposta (quante scuole potranno partecipare? Che tipo di formazione riceveranno gli insegnanti, e da chi? Che cosa si intende per “valutazione”?), ma su questo si potrà tornare quando anche il Senato esprimerà il proprio parere ed uscirà il regolamento attuativo. Vorrei invece portare un contributo che nasce dall’essere coinvolta nel comitato scientifico di una sperimentazione, forse più correttamente di una ricerca-azione, giunta al secondo anno e promossa dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di san Paolo, che coinvolge sei classi seconde in quattro scuole e due Centri di formazione professionale in Piemonte e in altre tre regioni (Emilia, Abruzzo, Puglia).
La prima considerazione è che questo tema ha assunto molto rapidamente una inattesa centralità, e ha già originato ricerche e sperimentazioni in vari luoghi. Ricordo almeno il Trentino e Torino: l’interesse è trasversale, e lo documenta il fatto che la legge in questione è stata presentata dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. È anche un tema interdisciplinare, che nasce tra gli studiosi del lavoro, ma si allarga rapidamente a psicologi, sociologi, pedagogisti ed economisti: mi pare anzi che fra gli argomenti di studio degli educationalist (parola che non ha un equivalente italiano, indicando così la scarsa disponibilità alla collaborazione degli accademici) sia uno dei più trasversali.
La seconda considerazione è che la legge ha una finalizzazione specifica, cioè contrastare la dispersione e la povertà educativa o, come ha detto il relatore, l’“analfabetismo emotivo” pesantemente aggravato dalla sospensione delle attività in presenza: l’obiettivo è quindi quello di accrescere l’equità e di migliorare le relazioni interne alla scuola, fra i ragazzi e gli adulti, ma anche dei ragazzi fra loro. Il solo paese che, a mia conoscenza, abbia normato l’introduzione nel curricolo di queste competenze, il Messico, lo ha fatto con la medesima finalità, quella di ridurre l’insuccesso, in base alla convinzione che le competenze socio-emotive sono “utensili e strategie metacognitive, attitudinali e comportamentali che permettono alle persone di controllare le proprie emozioni, di capire quelle degli altri, mostrare empatia, sviluppare relazioni positive, prendere decisioni responsabili, fissare e raggiungere obiettivi personali. Ci sono prove che queste competenze si possono sviluppare in modo intenzionale nel contesto educativo, e che in questo processo di apprendimento l’infanzia e l’adolescenza sono le tappe più significative” (la citazione è dalla tesi di dottorato su questo tema di un’insegnante di Bologna, Manuela Bressan).
La ricerca a cui faccio riferimento si propone dunque di rispondere a tre domande: le competenze non cognitive si possono riconoscere, misurare e implementare? Se sì, in che modo? Quale ruolo può svolgere la scuola?
È evidente che il tipo di misurazione non può essere lo stesso delle valutazioni su larga scala (gli ingiustamente vituperati “test a crocette”), ma è quasi altrettanto evidente che si possono identificare degli indicatori di queste competenze, cosa che molti insegnanti ben sanno quando esercitano una valutazione olistica, che prende cioè in considerazione tutti gli aspetti della persona, anche quelli che non sono quantificabili all’interno delle materie scolastiche o del programma.
Questo spiega l’apparente anomalia per cui studenti con le identiche prestazioni alla fine hanno un giudizio diverso: quando negli incontri con i genitori un insegnante dice “suo figlio non va male, ma potrebbe fare molto di più” oppure “suo figlio dà tutto il possibile”, che cosa fa se non rilevare e valutare competenze di tipo non cognitivo?
In questo processo, è fondamentale che l’insegnante sappia aiutare ogni ragazzo a fare un’autovalutazione – presente nel nostro progetto come momento iniziale – e poi fornirgli un riscontro puntuale sui suoi progressi. L’idea di fondo è che il possesso o il consolidamento di determinate competenze personali (character skills, li definisce Heckman, premio Nobel per l’economia che l’Intergruppo ha invitato a Roma in primavera, se riesce a fare lo slalom fra i tamponi…) non è solo utile per il lavoro, cosa nota da tempo, tanto che su queste competenze le imprese hanno incominciato a muoversi molto prima della scuola; ma per una vita buona, un ben-essere, termini che preferisco a quelli che sottolineano la partecipazione civica, e che rischiano di essere riduttivi.
Resta aperto il problema di capire il tipo di rapporto fra le competenze non cognitive e gli apprendimenti in termini di “materie” o comunque di conoscenze: l’Ocse stesso, dopo un ventennio di test su larga scala che hanno puntato tutto sulla misurazione delle competenze linguistiche, matematiche e scientifiche, ha avviato da un paio d’anni un progetto di ricerca in undici città per la misurazione delle competenze socio-emozionali nei ragazzi di undici e quindici anni, in base alla convinzione che siano fondamentali per il successo, o meglio per la piena realizzazione della persona.
Nella fase preliminare della nostra ricerca, in cui abbiamo raccolto delle “buone pratiche” in scuole e centri di formazione professionale che avevano affrontato questo tema nelle ore curricolari o in esperienze extrascolastiche, come l’alternanza, è emerso che molti ragazzi che avevano prestazioni scolastiche poco soddisfacenti, o anche insufficienti, ottenevano ottimi risultati, non solo, ma cresceva la loro motivazione anche per le attività più tradizionali.
La conclusione, provvisoria, che traggo dal lavoro che i ricercatori stanno portando avanti ormai per il secondo anno, è che non si tratta di una passeggiata, perché richiede agli insegnanti una preparazione e un rigore metodologico che la normale formazione non dà, e che devono essere garantiti anche da un appoggio esterno, e ai ricercatori richiede di porsi di fronte alle esperienze avviate rispettando l’autonomia e la diversità delle scuole e garantendo al tempo stesso un supporto metodologico e tecnico (schede di rilevazione, strumenti informatici di raccolta e gestione delle informazioni, guida del lavoro di gruppo…) per arrivare a ricavare indicazioni generalizzabili da diffondere alle scuole interessate a partecipare.
Mi auguro che i regolamenti tengano conto di questa complessità, e consentano alle scuole autonome di agire per rispondere ai bisogni espressi dall’ambiente in cui operano: una riduzione burocratica di una normativa che vorrebbe, in un certo senso, scardinare la burocrazia, sarebbe l’errore più grave.
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