Il mio amico Giuseppe non ce l’ha fatta a starsene lontano: in pensione dal 1° settembre, alla fine dello stesso mese è tornato a scuola. Era lì con noi di lettere a discutere come continuare il percorso di lettura e scrittura che per anni ha tenuto nella nostra scuola. E quando a novembre è arrivato con mascherina e green pass e firma come esterno sul foglio predisposto all’ingresso, era come se fosse naturale trovarselo lì nei corridoi dov’era stato tutti giorni per più di trent’anni. Non si può più lavorare con quattro classi parallele, ma ci sono aule che ne possono accogliere due con tutte le distanze e le misure di sicurezza.



Così si riparte: due seconde a cui leggere Il maestro nuovo di Rob Buyea e due prime a cui proporre un classico come Il giardino segreto. Io sto lì con le seconde, il vecchio prof che avanza dentro il cerchio degli alunni ha in mano un bastone che non è un bastone, dice lui. E dice anche che lui è un prof che non è più un prof e che il libro non è un libro. Si avvicina alla lavagna di ardesia montata su ruote che ha voluto in quell’aula che non è un’aula e ci scrive sopra con il gesso la frase: “Che ci faccio qui?” E spiega agli alunni che la domanda è rivolta a loro, ma che per primo se l’è fatta lui quella mattina.



E mai domanda è più ineludibile di quella. Per lui, ma anche per loro. Che ci faccio qui? Si può anche tradurre così: che cosa voglio da questo momento, da questa cosa che incomincia?

I ragazzi sono travolti dalle domande: pensavano di venire a sentire uno che dava risposte, forse. Ma lui incalza: quella domanda non riguarda soltanto quest’ora settimanale, ma dovrebbe essere lì ogni mattina scritta in ogni aula per cominciare bene la giornata (Giuseppe guarda noi insegnanti come a dire che sarebbe proprio da fare).

Comunque loro ci provano a rispondere. E già questo è un miracolo: litigano quasi, per dire la loro. E non è propriamente quello che succede a lezione. E a ogni risposta, un’altra domanda. Fino a quando uno che deve avere sentito il fratello che stava con Giuseppe l’altr’anno, risponde quasi d’un fiato a tutte le domande messe in fila: siamo qui per leggere il libro, ma in realtà è il libro che legge noi e mentre ci legge noi impariamo, cresciamo, ci conosciamo. Una verità dopo l’altra.



Ma Giuseppe non sembra essere contento. Ma sì, perché oramai queste qui sono cose che girano, parole che persino a scuola arrivano. Finalmente. Con colleghi che hanno imparato da Giuseppe o da qualche suo amico poeta, o che sono andati a leggere Pennac e Recalcati. E che si stanno finalmente chiedendo se non sia il caso di tornare a leggere, semplicemente tornare a leggere, come anche ricordava qui Capasa in un articolo qualche tempo fa. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo l’oceano.

Ecco: l’oceano è propriamente quello che abbiamo chiesto a Giuseppe di attraversare. Perché anche noi che lo abbiamo seguito per anni, e che in fondo sapremmo come fare, continuiamo a pensare che la consapevolezza di quello che stiamo facendo nasce propriamente dall’incontro con lui e non solo dalla padronanza del libro che abbiamo acquisito.

Giuseppe guarda il fanciullo che ha dato tutte le risposte, gli chiede di venire davanti a lui e di dirgli il suo nome. Alza il bastone e glielo appoggia sulla spalla: bene, da oggi potresti essere Luke, gli dice mettendo in scena una specie di cerimonia d’investitura. Tutti si guardano tra loro, qualcuno ride, qualcuno ha avuto paura che il bastone si abbattesse sulla testa del compagno. Ma no. Non c’è da avere paura: è il modo in cui il vecchio prof rimette al centro il libro. Anticipa che ci sono ben sette voci che raccontano una storia. Che una voce è proprio quella di Luke, forse il primo della classe. E chiede se qualcuno vuole essere Alexia, la stronzetta della classe, o Peter lo sbruffone, o Jeffrey lo schifato. Mani che si alzano e mani che indicano. Alunni che arrivano davanti al prof che non è un prof per l’investitura, con un bastone che non è un bastone ma una spada, poi un microfono come succede nel libro.

Ecco, sono già dentro il libro e finisce l’ora, giusto il tempo di leggerne qualche pagina, di lasciare ai ragazzi un compito che non è un compito: visto che Jessica, una delle voci del libro, racconta di avere le farfalle nella pancia, Giuseppe chiede ai ragazzi di raccontare anche loro quando e perché hanno avuto le farfalle nella pancia. La settimana prossima partiremo da qui, dalla lettura dei loro testi.

E noi sappiamo che ne arriveranno. E ci sorprenderanno. E che cominceremo un’avventura in cui ciascuno di noi, dentro la scrittura e l’ascolto, si prenderà cura dell’altro. Grazie a un libro che ci legge dentro.

È assolutamente vero: bisogna tornare a leggere e a farsi leggere. Ma ci vuole anche qualcuno che sia in grado di farlo parlare davvero, il libro. E che le parole, anche quelle belle che già crediamo di sapere, diventino vere. Esperienza che prende voce. Bentornato Giuseppe che non è Giuseppe.

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