La scuola è tornata. Se ne sono accorti tutti quest’anno, quasi non si parla d’altro. Ma come, ci avevano detto in tutti i telegiornali, sui social, nelle esternazioni di filosofi e influencer, niente è come prima. Infatti, le mamme la mattina non chiedono ai loro figli: “Hai tutti i quaderni? Hai preso la merenda?” No, la domanda con cui li congedano mentre scendono come sempre dall’auto in tripla fila davanti alla scuola è: “Hai preso la mascherina?” E gli insegnanti non iniziano più la lezione con la domanda: “Avete fatto i compiti?” No, chiedono per prima cosa: “Misurata la febbre?” Insomma, tutto è cambiato. Ma tutti, come prima, sono pronti a sparare sulla scuola.



Verrebbe facile, mi dice il veterano di tanti inizi, il mio amico Giuseppe. Ma sarebbe come sparare su un’ambulanza della Croce rossa, per di più guidata da un conducente ubriaco. Chi fa la scuola non ha tempo di prendere la mira per bucare le gomme del mezzo. Ha altro da fare. Ha da fare quello che ha sempre fatto e che oggi è diventato ancora più urgente e necessario, davanti a volti coperti fino al naso, a occhi spalancati o impauriti, intrepidi o spenti che siano.



Perché chi fa la scuola sa che deve fare per primo quello che chiederà ai suoi alunni: come posso pretendere di educarli all’attenzione – dice Giuseppe – se io non sono in grado di esserne testimone? Quegli occhi sono finestre aperte sull’istante, sul qui e sull’ora e interrogano ciascuno di noi sul prima e sul dopo, dice sibillinamente Giuseppe. Anche se la scuola, l’istituzione scuola, quella che governa, tutto dimostra tranne che di essere attenta, tranne che di arrendersi all’evidenza: i banchi e le rotelle non solo non sono necessari, ma si sono rivelati dannosi. Non è meglio tornare indietro e spendere i soldi in un altro modo? Non è meglio fare tamponi veloci, invece che tenere già chiuse le classi per 14 giorni? Non è meglio installare termoscanner (!) all’ingresso, invece di terrorizzare i figli con termometri casalinghi ogni mattina? Non era meglio, visto il proliferare di Dpcm, andare in deroga alla legge che prevede classi iniziali fino a 28 alunni e consentire la formazione di classi meno numerose? Era tutto meglio e si poteva fare dal mese di marzo.



Ma Giuseppe mi rimprovera mentre faccio queste osservazioni. Perché chi fa la scuola sa che cosa conta davvero, mica lo scrive solo sui social durante la pandemia. Così lui torna in classe, nella sua terza media e nella terza media che gli hanno lasciato in eredità. Guarda quegli occhi sopra le mascherine e la prima cosa che prova è una commozione che si allaga nel cuore fino a esplodere con un: “Grazie!” come prima parola che sa dire a quegli occhi. Poi spiega che il grazie viene dalla commozione profonda di essere lì: commozione, cioè essersi messi in movimento insieme. Verso quel luogo, verso la scuola. Ma, aggiunge, in terza media come in prima media, per ricominciare sempre, e soprattutto quest’anno, occorre rispondere alla domanda: “Che ci faccio qui?” Si vede che la domanda è innanzitutto rivolta a se stesso e dunque arriva a quegli occhi come un dolore lancinante e necessario.

Giuseppe apre il libro. Legge un raccontino di Piero Bargellini in cui si racconta di tre operai che stanno costruendo un muro. A chi passa e domanda cosa stiano facendo, il primo risponde che fa una fatica boia. Il secondo dice che suda per portare a casa il pane ai figli. Il terzo sorride, si asciuga la fronte e risponde: sto tirando su una cattedrale. Ecco, dice Giuseppe: tutte le mattine venendo a scuola ci faremo questo domanda: “Che ci faccio qui?” E cercheremo di imparare ad avere quello sguardo con cui il terzo operaio illumina la sua fatica.

E per imparare quello sguardo tira fuori le fotocopie de L’infinito di Leopardi – perché nella scuola i libri qualche volta dimenticano quello che conta – le distribuisce in sicurezza (!), le legge e le fa riascoltare dalla voce di qualche attore. Poi rilegge e si ferma su ogni passaggio, tira fuori il cuore della poesia: mica fermarsi alla siepe, se vuoi vedere davvero. E non è una finzione romantica del Giacomo sfigato che i libri e i film tratteggiano foscamente. Quella di guardare oltre è la dimensione della ragione, mica sogno o vaneggiamento: è il manifesto della scienza moderna, dice della poesia, lasciandosi andare a qualche pistolotto epistemologico che forse potrebbe evitare.

Così, dice chiudendo la sua lezione, oggi ci portiamo a casa, in tasca e dentro gli occhi, cinque parole d’oro, come le chiamava la professoressa da cui ha preso in eredità la classe: commozione, grazie, ideale – quello della cattedrale, per intenderci – e infinito. Sono quattro, dice una voce da sotto la mascherina, sotto lo sguardo bello e interrogativo di Alessia. Sono cinque, conferma Giuseppe. La quinta è quella che abbiamo lasciato implicita e inespressa, ma viaggia sotto ciascuna di quelle raccontate finora. La quinta è la parola domanda. Ricordate la domanda: “Che ci faccio qui?” Oppure il grazie, la commozione: “A chi? Per cosa?” La domanda è la parola d’oro di quest’anno scolastico e della vita intera.

E alla fine delle tre ore – perché c’è anche la questione insegnanti e supplenti nella scuola italiana e lo sapevamo da prima anche questo – Giuseppe tira fuori altre fotocopie: Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Sempre Giacomo Leopardi. Consegna e promette che la fatica sarà soltanto per costruire la cattedrale. Sarà per costruire ciascuno un pezzetto della propria cattedrale, della propria persona. Ecco quello che conta. E la poesia continua a raccontarcelo sempre.