In Gran Bretagna, durante il lockdown, si ammettevano a scuola i figli dei cosiddetti lavoratori indispensabili (key worker) che, altrimenti, non avrebbero potuto svolgere la loro professione. In quel momento, le scuole inglesi hanno svolto esplicitamente una funzione assistenziale, cosa che i docenti, diversamente da quanto avviene in Italia, hanno accolto senza grosse remore. Potremmo aggiungere, inoltre, che l’accoglimento di una tale funzione sia stato sostenuto da un’opinione pubblica pronta ad apprezzare il versante sociale del ruolo docente, comunque rivestito di un forte carattere educativo.
Nel nostro Paese, invece, gli insegnanti, particolarmente quelli di scuola superiore, hanno sempre guardato con sospetto ai compiti assistenziali, giudicandoli un abbassamento rispetto a quello che viene considerato il ruolo professionale della docenza, cioè la trasmissione culturale. Eppure, tra i tanti cambiamenti che l’epidemia ha comportato, c’è anche l’assunzione netta e visibile, da parte delle scuole, di un ruolo assistenziale/educativo, perché, senza di esso, l’intero sistema economico avrebbe riportato danni ancora maggiori rispetto a quelli già subiti: gli operai non sarebbero potuti andare in fabbrica, se qualcun altro non avesse accudito i loro figli.
Ma, si sa, i cambiamenti si colgono di sera, al volo della nottola, quando il percorso del cambiamento è stato compiuto. Nell’attualità, invece, è difficile comprendere ciò che si sta compiendo. Per questo, è opportuno muovere passi misurati, che siano di contrappeso alla durezza del divenire.
In tal senso, potremmo dire che la nota ministeriale n. 343, pubblicata il 4 marzo scorso, a firma del capo dipartimento del Miur Max Bruschi (recentemente “dimissionato”) è piombata, sul tema in questione, con la delicatezza dell’elefante tra i cristalli. Essa, infatti, con una semplice frase in aggiunta, ha provocato una marea di giustificate proteste.
Ma cosa dice la nota? Precisa che dev’essere garantita la frequenza scolastica degli alunni, figli di personale sanitario “o di altre categorie di lavoratori”. Intendiamoci, il principio, che sovrintende a una tale previsione, risponde senz’altro ai valori di giustizia e di solidarietà, ma la nota contiene il classico veleno “in cauda”. Quali e quante altre categorie di lavoratori possono essere comprese tra i key worker? Chi sono i lavoratori indispensabili? Se è certo che lo siano i medici e gli infermieri, possiamo escludere dal rientro a scuola i figli degli operai o delle commesse dei supermercati? E i figli dei poliziotti o dei fornai?
Nel Regno Unito, in base a un’analoga regola ministeriale, alcune scuole si sono trovate a ospitare il 70% della loro utenza scolastica, con ciò vanificando, nelle aule, il lockdown stesso. Per evitare tutto questo, infine, chi avrebbe dovuto scegliere le categorie di lavoratori indispensabili? Senz’altro i presidi, che, non a caso, hanno protestato per l’insostenibilità del compito.
Giustamente, il ministero ha emendato la nota di Bruschi, senza disconfermarla, ma solamente con alcune precisazioni. Infatti, nella nota di ieri l’altro, 7 marzo, firmata dal capo gabinetto Luigi Fiorentino, si definisce semplicemente chi ha diritto di partecipare alle lezioni in presenza (alunni disabili o con disturbi specifici di apprendimento, alunni che possano svolgere attività laboratoriale) tralasciando la questione dei key worker.
Affrontarla in modo sbagliato sarebbe stato peggio che rimuoverla del tutto. Com’è noto, le strade che portano all’inferno sono lastricate delle migliori intenzioni.
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