Secondo le statistiche Ocse, l’economia italiana tornerà ai livelli pre-pandemia entro la prima metà del 2022. Accadrà la stessa cosa per i livelli di istruzione del nostro Paese? I più recenti dati Invalsi messi a disposizione del pubblico lo scorso luglio 2021, sulla base delle rilevazioni effettuate lo scorso anno scolastico, ci offrono in estrema sintesi questo panorama:



1) la scuola primaria riesce a garantire risultati analoghi a quelli riscontrati nel 2019; 2) nella scuola secondaria di primo grado rispetto al 2019 i risultati di italiano e matematica sono più bassi, mentre quelli di inglese (sia listening sia reading) sono stabili; 3) nell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado, rispetto al 2019 i risultati del 2021 di italiano e matematica sono più bassi, mentre quelli di inglese sono stabili.



Il Rapporto 2021 specificava inoltre che “la pandemia potrebbe avere aggravato il problema della dispersione scolastica, soprattutto nelle sue componenti più difficili da individuare e quantificare”. Ora, dispersione significa due cose: conseguimento del diploma di scuola superiore senza acquisizione delle necessarie competenze di base (dal 7% come media nazionale nel 2019 al 9,5% nel 2021 con punte fino al 20% in Campania e 22% in Calabria) e dispersione esplicita, cioè abbandono della scuola prima del diploma.

Quest’ultimo dato è gravissimo: il 23% dei giovani della fascia d’età 18-24 anni (nel 2019 erano il 22,1%) ha lasciato la scuola prima di effettuare l’esame di Stato.



Questi dati nella loro fredda obiettività fotografano un fenomeno di cui ancora troppo poco ci si sta occupando che si chiama “povertà intellettuale”. Di norma la povertà intellettuale è figlia della povertà economica e sociale, ma non sempre il rapporto di causalità definito in questi termini tiene. Succede oggi che si possa essere socialmente “ricchi”, ma intellettualmente molto poveri. La povertà intellettuale si articola in due limiti fondamentali: incapacità di comprendere di che cosa si tratta (un linguaggio, una situazione, un blocco di eventi) e incapacità di elaborare creativamente una soluzione (il classico vivere alla giornata).

In molti alunni che sono rientrati a scuola dopo il lockdown causato dalla pandemia si è verificata non tanto la difficoltà a ritrovare la socialità perduta, bensì il filo del discorso interrotto. Quale filo, semmai ce ne sia stato uno prima? Quello delle parole che introducono al significato delle cose. Le parole non sono solo rappresentative, sono spesso allusive, come sono allusivi i gesti della persona adulta che introduce i più giovani nella realtà. Ecco perché c’è bisogno della scuola in presenza: per vedere i gesti delle persone (insegnanti anzitutto) che con il volto, la postazione del corpo, l’uso delle mani o di strumenti vari caricano le parole di significati. Nella scuola in presenza, una qualsiasi “lezione”, di qualsiasi materia si tratti, è sempre corredata da una cascata di gesti visibili che rendono le parole più comprensibili. La scuola vera è fatta di ascolto, di silenzio, di immedesimazione e infine di tentativi di assimilazione.

Ecco perché la battaglia contro la lezione frontale è sbagliata e apportatrice di nuova povertà. Certamente non basta, e dunque la lezione frontale dell’insegnante dovrà essere verificata nel “laboratorio della comprensione e della partecipazione” degli alunni. Non bisogna prescindere ad ogni modo dal fatto che l’aria della classe deve essere “scossa” dalla voce e dal portamento (nobile) dell’insegnante per divenire strumento di introduzione ad una conoscenza che si moltiplicherà nelle strutture di comprensione degli alunni.

Non pare che a Glasgow, là dove ci si è occupati del clima della terra surriscaldata, ci si sia altrettanto occupati del clima troppo freddo delle classi dove non succede niente e gli alunni si annoiano. La noia a scuola è l’anticamera della povertà. Non mi interessa, dunque me ne vado. I giovani che abbandonano non è che se ne vanno da soli: sono costretti ad essere poveri da una scuola povera di contenuti, di occasioni, di stimoli.

La vera riforma scolastica dovrebbe essere nel senso della semplificazione: percorsi fondamentali e poche parole spese bene. Il contrario di quello che avviene: la scuola è diventata il cestino dei rifiuti della coscienza adulta del Paese. Ambiente devastato? Facciamone una materia scolastica. Incapacità di includere le diversità? Facciamone una giornata scolastica. Violenza nelle strade e bullismo? Beh, c’è la “nuova” educazione civica.

Tornare all’essenziale sembra a questo punto un’indicazione moralistica dettata da chissà quale tentazione di conservatorismo educativo. Non c’è bisogno di tornare alla scuola autoritaria o della maestrina dalla penna rossa per emergere dalla povertà intellettuale. C’è bisogno di adulti formati all’insegnamento, cioè capaci di cogliere il cuore della complessità (che coincide sempre con una o poche parole significative). In fondo è già “accaduto”. C’è stato Chi nel bel mezzo del Caos primigenio ha detto: Fiat Lux! O no?

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