Stufo dei soliti Svevo e Pirandello (sia detto con ogni rispetto), decido di proporre per un corso di lettura nel mio liceo l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, La strada. Durante quattro incontri leggeremo il libro, con studenti e colleghi, alternando la lettura con brani musicali offerti da autori contemporanei, come Paul Hindemith, eseguiti dai ragazzi della sezione musicale, guidati dai loro insegnanti.
Il corso ha la struttura di un seminario: ogni settimana viene assegnata una parte del libro e poi se ne discute insieme. Il metodo è fondamentale: si sta davanti a un testo, non c’è uno che spiega e gli altri che ascoltano e che ad un certo punto devono rendere conto, ma ognuno racconta ciò che ha visto o percepito durante l’esperienza della lettura e dell’ascolto, nella condivisione e nell’arricchimento reciproco.
La strada (The road) racconta la lunga e drammatica storia di sopravvivenza di un uomo e del figlio ragazzino, mai indicati per nome, dopo una catastrofe immane, di cui non si conoscono le cause, che ha ridotto il mondo in una landa desolata e gli esseri umani in larve che di umano sembrano avere ben poco. Uno scenario apocalittico, o post-apocalittico, come viene ripetuto da tutti gli studi sul romanzo.
Apparentemente, sembra la storia meno adatta da raccontare in tempi di pandemia. Mi convincono due cose: la qualità narrativa e linguistica del libro – non c’è dubbio che si tratti di un capolavoro, uno dei pochi, grandi libri degli anni Duemila e McCarthy è uno dei più significativi scrittori dei nostri anni –; poi, se si va oltre la scorza dell’apparenza, si scopre che il romanzo mette a tema ciò che perdura e che dà vita, pur in circostanze drammatiche. Non dimentichiamo che la parola apocalisse, secondo l’etimo greco, vale prima di tutto “rivelazione”, mentre il significato di “distruzione” è successivo. Nella crisi vi è “la rivelazione finale della fragilità di ogni cosa”, scrive l’autore.
Questo corso è stato un “antidoto al brutto” afferma il collega Fabio, promotore con me dell’iniziativa, “perché si è occupato di speranza nel senso più profondo, di tensione verso una meta”.
Di che cosa si tratta, quindi? Chi sono i due protagonisti del libro? Quale realtà viene descritta? Cosa ci vuole dire l’autore? Queste le domande che hanno accompagnato i partecipanti al seminario, attenti a scoprire ogni volta un frammento della propria umanità, sollecitata dal confronto con le pagine urticanti di un grande autore.
Scrive Chiara, una mia allieva: “l’unico elemento del sogno americano che sopravvive a una catastrofe indefinita è la strada, come dell’Impero romano restano soprattutto le strade, il suo scheletro di cemento; la zattera dei due moderni Ulisse è un carrello da supermercato. Ma questo scheletro è anche la via”. Il padre sa vedere qualcosa al di là della faccia smagrita del figlio: intuisce “una strana forma di bellezza”, in quel suo “minuscolo paradiso”. Una lezione sullo sguardo: bisogna non allentare la presa sull’oggetto, guardarlo tenacemente, costringerlo a rivelare la sua essenza.
E La strada è un romanzo nudo: punta all’essenziale, come la sua lingua, nitida e precisa. E si cammina, “un passo alla volta”, “mano nella mano”, perché bisogna “andare avanti”, alla ricerca della salvezza, di ciò che rimane di buono nel mondo, guidati da pochi segni di speranza. E se si è ancora in grado di scorgere la bontà, nonostante tutto, vuol dire che si ha la bontà dentro di sé. Il padre trasmette al figlio il senso della speranza, pur sapendo che “stava riponendo le proprie speranze in qualcosa che speranze non ne dava. Sperava in una schiarita quando con ogni evidenza il mondo diventava ogni giorno più buio”.
La vera speranza si manifesta quando non c’è più niente in cui sperare: è la spes contra spem della Lettera ai Romani di San Paolo. L’uomo viene in possesso di una pistola lanciarazzi e lancia un razzo che “esplose da qualche parte sopra il mare”, come un grido rivolto al Cielo, perché qualcuno lo veda e si accorga di loro. “Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?”, chiede il bambino al padre. “Alzarmi stamattina”, è la risposta. È il coraggio quotidiano, di chi ha una buona ragione per alzarsi alla mattina. La buona ragione per l’uomo è il figlio, in cui si riassume quanto di positivo c’è al mondo. È lui che raccoglie l’eredità della speranza: “Ce la caveremo, vero, papà?” – “Sì. Ce la caveremo”. “E non ci succederà niente di male”. “Esatto”. “Perché noi portiamo il fuoco”. “Sì, perché noi portiamo il fuoco”.
Nel finale, il bambino, perduto il padre, viene accolto da una comunità di sopravvissuti, i quali hanno conservato il senso di umanità necessario per ripartire e per ricostruire. Nell’ultima scena evocata dal romanzo, si ripete che “ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero”. Il mistero rimane l’ultima parola di Cormac McCarthy.
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