“Se io dico a un gruppo di giovani di quindici o di sedici anni: ‘Ragazzi, vi faccio conoscere una ragazza bellissima, una di cui non avete idea quanto sia bella!’, non li posso poi mica portare all’obitorio e fargliela vedere morta! E dopo magari gliela faccio pure a fettine per mostrargliela come è fatta dentro. Quelli inorridiscono, fuggono e vanno a inseguire la prima ragazza ‘viva’, vera che vedono per apprezzarla, baciarla, amarla: per avere un rapporto con lei! Ecco, noi trattiamo la poesia e la letteratura così: la ammazziamo, la sezioniamo e poi pretendiamo che i ragazzi se ne appassionino”.



A lanciare ai colleghi insegnanti questa provocazione è il professor Franco Nembrini, grande educatore (nonché noto divulgatore di Dante). Provocazione da cogliere, a mio parere. Lo spezzatino antologico di letteratura che talora offriamo ai ragazzi, brandelli di testi, testi che poi peraltro andiamo a vivisezionare in infinite analisi linguistiche, rischiano di ammazzare l’interesse. La prima considerazione che mi viene da fare riguardo alla lettura, quindi, è proprio questa: per quanto possibile, i testi vanno letti integralmente, non fatti a pezzi. Perché solo così i ragazzi possono davvero entrarvi dentro, avere con essi un rapporto vivo. Da qui, la mia scelta di non rinunciare all’ora di narrativa a scuola, attraverso la quale si può gustare la lettura completa di un testo (nonché, per quel che riguarda la letteratura nella scuola media, anche quella di preferire l’approfondimento di un’opera, piuttosto che proporre uno spezzatino enciclopedico da macellai, in cui, peraltro, tutti i testi risultano di pari importanza).



Seconda considerazione, connessa alla prima. È il filosofo Massimo Borghesi ad accompagnarmi a farla nel suo saggio “Il soggetto assente”. Negli ultimi trent’anni, noi, figli dello strutturalismo – declinazione del positivismo –, rischiamo di frantumare il sapere nelle sue strutture, perdendo in esse il primato del soggetto. Abbiamo perso l’elemento narrativo, abbiamo perso, frantumato il soggetto, l’io, nel tentativo di oggettivare il sapere, presentandolo nei suoi aspetti formali e strutturali. Insomma: non esiste il soggetto personale, ma esistono le “strutture” da oggettivare ed esaminare. È un po’ la “vivisezione” di Nembrini, nella quale molti testi scolastici ci portano a perderci. I manuali scolastici sono spesso diventati piccole enciclopedie, pagine zeppe di nozioni, notizie, informazioni, analisi, grafici, dati su dati che ci fanno smarrire la visione globale, la gerarchia delle informazioni, le connessioni degli elementi fra loro e, soprattutto, la connessione dei contenuti con noi stessi. È venuto meno il primato antropologico della coscienza in favore di un policentrismo infinito. Questo modello, che secondo Borghesi è alla base dello iato che si è venuto a produrre tra conoscenza e interesse – il motivo dell’apatia dei nostri alunni, per intenderci – riguarda l’approccio ad ogni disciplina scolastica, persino alla storia, in cui la narrazione dovrebbe esserne cardine, finanche agli stessi testi narrativi.



Quante analisi e “vivisezioni” operiamo talora, fino a perderci in esse, nei testi narrativi (e poetici) che invece andrebbero anzitutto goduti, in cui dovremmo anzitutto entrare dentro (l’etimologia di “inter-esse”, d’altronde, è proprio questa: “stare dentro”)? Così come, riguardo pure ai testi scientifici – domanda Borghesi a una delle presentazioni del suo saggio –, “perché proporre pagine e pagine di descrizione arida, nemmeno fosse per una specializzazione dell’università, anziché accompagnare i ragazzi a una comprensione della realtà che invece è così affascinante?”.

Terza ed ultima considerazione, pensando soprattutto alla narrativa e alle materie umanistiche. Quali testi proporre? Per la mia esperienza, io risponderei, senza ombra di dubbio i classici, sebbene sappia bene che qualcuno, invece, ne ha decretato in qualche modo il declino: “perché sono difficili”, “perché sono superati”, “perché non incontrano i gusti dei ragazzi”, “perché sono troppo lontani nel tempo”, “perché – obiezione che è forse la più assurda di tutte! – non hanno più niente da dire”, “perché il loro linguaggio non è sempre accessibile”, “perché sono elitari” …ancorché sia l’esatto contrario.

Nella mia esperienza, ad esempio, sono proprio gli alunni con più difficoltà ad aprirsi, amare, avere bisogno ed entrare in una relazione veramente “viva” con i classici (certo, occorre accompagnarli nella comprensione). E nessuno più dei classici parla al profondo del cuore dei nostri ragazzi, cuore che, seppur in contesti diversi quanto si voglia – da quello di Omero o Dante, al loro! – è tuttavia sempre lo stesso, da sempre e per sempre: stessi desideri, stessi bisogni, stessi sogni, stesse paure, aspettative, ansie, amori, affanni… attraversati e vissuti nei modi più alti e intensi, e comunicati con le parole più vere ed efficaci.

Afferma ancora Borghesi: “I classici indicano i punti più alti dell’umanità, quelli in cui l’umanità ha compreso con più profondità sé stessa. Uno, il classico, studiandolo, lo impara per tutta la vita, se lo porta dietro perché con esso impara immagini dell’umano, immagini che formano la propria umanità. Hai di fronte dei geni, che hanno sondato l’umano con una capacità così potente che val la pena legger più quelle due o tre cose lì, che diecimila libri che trovi nelle bancarelle, che non ti servono a nulla, che non ti portano nulla”.

Concludo, quindi, con una citazione di Machiavelli (Lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513) che riporto sempre, tutti gli anni, ai miei alunni, per far loro capire perché e soprattutto “come” vanno letti i classici: “Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro”.

Ecco, se riusciamo ad accompagnare i nostri alunni in un dialogo così, a un’amicizia “viva”, a un incontro-confronto-scontro con i Grandi, i geni della storia, la lettura non può non appassionare.

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