La “lezione” è il mattoncino di cui oggi sono fatti tutti i muri dell’edificio “scuola”. Essa, come si è visto nella prima parte, rappresenta il tassello e la modalità (a un tempo metodologica e organizzativa) fondamentale dell’attuale modo di “fare scuola”. Un tassello delimitato e coincidente con una unità oraria, che eccezionalmente supera il blocco di una o due ore; un tassello che non si dispiega in forma unitaria e continuativa nel tempo, ma si articola e riarticola in modo segmentato con altri tasselli (le lezioni delle diverse “materie”) entro un quadro orario definito principalmente sulla base delle esigenze organizzative e di gestione del personale docente, non certo di quelle intrinsecamente connesse all’oggetto su cui si svolge l’attività. Nel suo format e modalità standard, la figura dell’insegnante occupa la posizione centrale.



Certo, la lezione può essere attiva, può prevedere modalità di lavoro di gruppo. In essa l’insegnante può giocare un ruolo non solo trasmissivo, ma evocativo e di apertura alla ricerca del senso e del vero. Tutto ciò può “accadere” nella lezione. Ma la sua forma, la condizione materiale-operativa in cui gli studenti sono posti è quella funzionale ad un apprendimento e all’assunzione di un ruolo passivo, da destinatari, non di protagonisti dell’attività.



Lezione viene da lectio, termine che indica la modalità fondamentale del fare scuola nel Medioevo, riconducibile all’esercizio del legere textum. Quali sono gli elementi strutturali di questa forma originaria (e che cosa di essa è cambiato e andato perso nel tempo)?

Nel Medioevo la disponibilità dei testi e di testi integri e/o nella loro versione originale era molto limitata. Buona parete dell’insegnamento avveniva per via orale e si basava su appunti. Ciò nonostante la modalità che allora è diventata struttura (fisica e mentale) è quella che fa riferimento al testo, cui – per estensione dell’atteggiamento verso il Testo per eccellenza, quello sacro – veniva attribuita la dignità di auctoritas e su cui si effettuava l’esercizio complesso, ad un tempo logico-grammaticale, storico ed ermeneutico, di lettura. Tale esercizio avveniva assumendo quell’unità minima significativa che era la littera, di cui, dopo una lettura ad alta voce, veniva individuata la struttura, tramite un processo di divisione dicotomica delle parti fino al livello delle singole proposizioni; seguiva quindi l’esposizione delle parti con spiegazione dei termini più difficili e la distinzione dei loro usi (innanzitutto nell’ambito del contesto complessivo del testo, quindi di quello più ampio storico-culturale). Da questo lavoro rigoroso emergevano punti di particolare importanza o difficoltà interpretativa, di solito introdotte da un dubium o dubitandum est, che venivano riassunti e discussi come parte finale della lectio e da cui, molto probabilmente, si è sviluppata quell’altra forma tipica del fare scuola che è la quaestio.



Tenere lezioni e dispute era uno degli obblighi fondamentali dei maestri di filosofia e teologia. Si trattava di vere e proprie dispute pubbliche (l’equivalente culturale dei tornei), di carattere ordinario che si tenevano durante tutto l’anno (quaestiones disputatae) e di carattere straordinario (quodlibetales), limitatamente ai periodi dell’Avvento e della Quaresima. Queste ultime – ovviamente un po’ temute dai maestri… – erano aperte ad un pubblico più vasto di quello accademico e potevano vertere su qualsiasi argomento (de quolibet), introdotto da qualsiasi persona dei partecipanti (a quolibet). Il tutto poteva assumere la fisionomia di una pubblica ordalia e in molti casi doveva intervenire la forza pubblica per evitare degenerazioni e disordini. La quaestio aveva per oggetto un tema (titulus quaestionis) da indagare e affrontare criticamente, attraverso l’esposizione delle possibili risposte tipologiche, desunte da citazioni autorevoli, raccolte e catalogate sotto la formula del videtur quod e del sed contra. Alla discussione seguiva la soluzione (respondeo) formulata dal maestro.

Dal punto di vista procedurale, una disputa formale nel XIII secolo si articolava in due parti e si svolgeva in due giornate. Nella prima, dopo una breve esposizione del maestro, un baccelliere – studente che aveva già alle spalle una documentata esperienza di praticantato – con l’eventuale assistenza del maestro rispondeva alle questioni poste dal pubblico e un segretario registrava quanto emerso; la seconda era dedicata alla determinatio del maestro. Solo nella seconda fase della scolastica la discussione cominciò a svilupparsi a partire da una thesi del maestro, avvicinandosi alla fisionomia del dibattito cui siamo abituati. Oggi, in molti testi scolastici il vedetur quod e il sed contra sono tradotti come “tesi” e “antitesi”. Nulla di più lontano dallo spirito fortemente inclusivo e aperto delle dispute della prima scolastica, che recuperavano nella sintesi finale gli aspetti veritativi presenti in ogni argomentazione, attribuendole non un carattere ultimativo, ma progressivo: nella verità si procede, attraverso una ricerca continua, che pone punti fermi, ma mai esaustivi. In termini cioè non di dottrina chiusa. Si sa che lo stesso san Tommaso d’Aquino, al termine della sua vita, non volesse pubblicare quella Summa che raccoglieva in modo ordinato la sua produzione scolastica.

Quali possibili indicazioni di metodo possiamo trarre per l’oggi? Nella lezione di allora ciò che era il testo stesso, che andava conosciuto nella sua oggettività, sviscerato e compreso nel suo significato e orizzonte di senso. Sia nella lectio che nella quaestio l’insegnante era maestro, aiutava e sosteneva il lavoro e l’esercizio collettivo degli studenti, direttamente protagonisti del processo. L’articolazione dei curricoli era determinata dagli oggetti (testi) su cui si lavorava e dal tempo necessario per sviluppare tale lavoro. Nella disputa l’argomentazione non era puro esercizio retorico o logico, né scontro tra due tesi contrapposte, tra cui operare una scelta drastica e unilaterale. In essa “l’opponens deve tentare di correggere il respondens, sia che questi sostenga il vero, sia che sostenga il falso; ma non deve farlo per vincerlo, come usano i sofisti, bensì perché entrambi progrediscano nella ricerca della verità” (Boezio di Dacia, XIII sec.).

Oggi ormai viviamo in un contesto completamente diverso, nell’epoca post-testuale, che ha oltrepassato quel lungo periodo che a partire dall’antichità è stato contrassegnato dalla forma materiale e mentale del “libro”. Tornare al Medioevo sarebbe pertanto semplicemente ridicolo. Ma il rimettere al centro, ripensandola, l’istanza di una educazione all’uso della ragione, che si sviluppa nella polarità tra l’oggettività di quel “testo” che è il dato di realtà e la tensione ad un orizzonte di senso, questo sì, sarebbe creativamente e coraggiosamente da farsi. Con le scelte, anche di sistema, che ciò implicherebbe.

(2 – continua)

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