“Di quello che a maggio abbiamo fatto a scuola so tutto, ma non mi è rimasto niente”. La sintesi di Francesca, una delle più “brave” (si dice così!) della classe è una rappresentazione icastica e paradossale di un tempo, quello della fine dell’anno scolastico, in cui si assommano verifiche e interrogazioni e gli alunni, come le biglie impazzite di un flipper, rimbalzano senza senso da una parte all’altra al solo scopo di fare aumentare lo score.
A provocare la mia classe di secondo anno sono stato io. La notizia dell’accoltellamento in classe di un’insegnante di Abbiategrasso da parte di un alunno mi interroga non poco. “Ci vuole lo psicologo?” chiedo, sintetizzando le conclusioni del ministro Valditara e dei giornali. L’ultima fila è del tutto distratta mentre Marta, sul lato destro, non sembra ancora essersi ridestata dall’automatismo che dalla sponda del letto l’ha condotta sino al suo banco. “Sì – risponde infine Ines – se ci sono dei problemi è giusto affrontarli”. La discussione è chiusa: “Ci penserà lo specialista!” A me, però, non basta.
Se è in crisi il rapporto tra insegnanti e ragazzi – dico loro – è da noi che dobbiamo partire. “Professore, il rapporto con l’insegnante non è obbligatorio. Se a me non piacciono le idee o il modo di fare del prof, non mi interessa neppure parlargli” chiarisce Flavia. “Ma quello che succede in classe – ribatto – riguarda tutti, insegnanti e alunni, al di là della simpatia che può esservi o no”. Alza la mano Stella. “Alla fine – sintetizza con amara precisione – tutto si riduce al voto, e allora a che vale discutere? Tu sei il tuo voto, e gli insegnanti sono i primi a pensarlo”.
Stella non interviene mai. Il fatto che si esponga è il sintomo di una sofferenza che ha trovato la strada per esprimersi, ed è un fiume in piena: “È un mese che corriamo, che facciamo verifiche e tutto si gioca nel voto”. Anche l’ultima fila adesso mostra segni di attenzione. Gli interventi si susseguono. Emerge un senso di impotenza, una giovane umanità sofferente trascinata da una fiumana di incombenze da assolvere, di consegne da rispettare, di fatica senza un perché. “È chiaro poi che, se l’unica cosa che importa è il voto e io ce l’ho, allora posso anche distrarmi, e non serve per forza il cellulare” afferma Giulia.
“Ma che gusto c’è a vivere così?” rilancio ancora. “La questione, professore, è se la scuola è un mezzo o un fine. Un mezzo per arrivare all’università o un fine per capire e diventare me stesso”. Giovanni pone una questione fondamentale che non sta sui giornali.
“La verità però – riprende Stella – è che le cose che facciamo a scuola non servono nel lavoro, perché ripetiamo quello che i prof vogliono sentirsi dire, ma non siamo autorevoli in quello che diciamo”. Stella è capace di farmi percepire, a un tempo, il fallimento di un sistema che non serve a cogliere in modo personale il significato della realtà e, proprio nella sua denuncia, tutto il bene che a scuola ancora accade come scoperta del senso profondo di ciò che viviamo.
“Almeno tra di voi – rilancio – c’è qualcosa di positivo dentro la fatica di questi giorni?” Stella riprende la parola. “A me – confessa – è venuta spesso la voglia di chiedere aiuto. Ma se poi disturbo i miei compagni? se gli pesa darmi conto e se ne lamentano con gli altri? Così faccio da sola”. “E questo cosa indica?” proseguo il filo del suo discorso. “Che non siamo ancora amici”, conclude Giulia.
Guardo il volto di Stella, anche lei se ne è resa conto quasi con sorpresa. “Forse – afferma – se questa fatica serve a aprire gli occhi, non è inutile”.
Ecco lo scopo della scuola: aiutarci a “aprire gli occhi”. Lo si riconquista in un rapporto, dentro un dialogo senza rete. Ne abbiamo bisogno tutti, alunni e professori.
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