C’è una novità, nel fitto panorama di occupazioni studentesche che da mezzo secolo affligge la scuola italiana. È la contro-occupazione decisa lunedì scorso al Liceo “Virgilio”, uno dei sette od otto istituti superiori della Capitale in autogestione, “dove studenti, docenti e genitori hanno detto no ad azioni che privano la maggioranza degli alunni del diritto costituzionale allo studio” e che “è di grande importanza civile ed educativa”.



Lo ha scritto su X il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, lo stesso che giorni addietro ha visto la propria effigie bruciata in piazza dai manifestanti di Roma e di Milano contro la legge finanziaria e, in una capriola circense, anche pro Palestina. Com’è andato il sit-in organizzato dalla dirigente è noto: una trentina di partecipanti a fronte dei circa mille iscritti al liceo. Dal punto di vista numerico, un gigantesco buco nell’acqua. Anche perché il giorno dopo s’è svolta una contro-controccupazione che ha visto duecento genitori (o trecento? le fonti sono diverse) sottoscrivere un documento a sostegno di “occupazioni (il plurale sottolinea la volontà di andare ben oltre i fatti del Virgilio) organizzate e costruttive” che “hanno l’intenzione di migliorare la scuola e il dialogo” e ben diverse dalle “occupazioni che facevamo noi”: affermazione, quest’ultima, che da un lato tradisce le origini post-sessantottine con le okkupazioni scritte con la k, dall’altro ammette implicitamente che erano “disorganizzate e distruttive”.



Lungi da noi entrare nel merito della specifica querelle che vede la dirigente Isabella Palagi al centro di una protesta dai toni violenti (mai visto occupazioni dai toni diversi) che, nella scuola come nelle fabbriche (Landini docet) sta diventando una modalità espressiva sdoganata nell’indifferenza quasi generale: “Viviamo nel nostro istituto una criminalizzazione, ogni anno più ferma, di qualsiasi attività politica legata al collettivo” e “qualsiasi tentativo di dialogo costruttivo tra corpo studentesco e dirigente scolastico ci appare da tempo inconcludente”. Eppure qualcosa non torna. La preside è al quarto anno di occupazione su sei di dirigenza e questo, se da un lato può far pensare ad un’incapacità di gestire l’istituto, dall’altro conferma il contenuto sostanziale della contro-occupazione: in quella scuola studiare con continuità è diventato un’utopia.



Poi c’è la faccenda di un manipolo di studenti che obbliga alla propria visione del mondo tutti gli altri, naturalmente in nome di una “democrazia” che impone alla maggioranza ciò che viene deciso dalla minoranza. Infine c’è la contraddizione di una protesta che da una parte chiede “spazi adeguati in cui studiare” (immaginiamo si tratti di studiare le materie del proprio corso di studi), dall’altra – ottenuti con la forza tali spazi – procede con un corso Acrobax (dal nome di un centro sociale romano autogestito) su come si organizza l’occupazione, una cena sociale, una serata musicale e gli immancabili quanto improbabili “corsi alternativi”.

Anche l’anno passato accadde qualcosa di simile, due settimane in autogestione giusto per arrivare indenni alle vacanze natalizie col risultato di 25mila euro di danni causa svuotamento di estintori, manomissione degli impianti elettrico e antincendio, rottura ed imbrattamento di muri e arredi. Cifra che, naturalmente, è stata pagata dallo Stato, cioè da tutti noi. Con tali premesse è difficile credere che questa volta andrà in modo diverso, anche perché i firmatari del documento in favore della protesta sarebbero pronti ad assicurare che “mio figlio non c’entra”, ma “se c’entra è stato costretto dal sistema”.

È un film che viene proiettato quotidianamente nella scuola italiana ormai da parecchi decenni anche davanti ad un semplice brutto voto o ad una bocciatura. C’è un parallelismo fra occupazioni (illegittime anche se muovono da giusti princìpi) e scioperi ad oltranza: si tratta di manifestazioni organizzate da pochi, che hanno fatto il loro tempo e che gravano sull’intera collettività. Nei luoghi di studio come di lavoro urge trovare soluzioni nuove che garantiscano la possibilità di rivendicare i diritti di alcuni (giusti o sbagliati non è possibile stabilire a priori) senza ledere quelli degli altri. Forse è questo che volevano affermare i trenta partecipanti alla contro-occupazione, lasciati soli – scorporati i due o trecento firmatari – dai restanti due terzi (o giù di lì) degli interessati. E chi sta a casa, si sa, ha sempre torto.

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