Sono le sette e quaranta di una mattina della prima settimana di scuola, in una delle tante secondarie italiane. Un’insegnante sta chiudendo il lucchetto della sua bicicletta, tira fuori i libri e la borsa dal cestino. Nel parcheggio, accanto a lei, arrivano alcuni ragazzi. Scendono dalla bici e parcheggiano anche loro, ordinati, con la mascherina sulla faccia e lo zaino sulle spalle. Uno dice all’altro: “Ci vediamo dopo, vado dietro”. “Dietro dove?” domanda il compagno. “All’altro ingresso, la mia classe entra da lì”. L’insegnante si avvicina: “Guarda che stiamo pensando di farvi portare una rastrelliera anche nell’altro cortile, così poi non dovete fare il giro; mi spiace ma prima della partenza non ce l’abbiamo fatta”. Nella riprogettazione degli spazi della scuola e dei varchi per evitare gli assembramenti all’entrata e all’uscita, questo è un particolare a cui non si era riusciti a pensare, tra le tante altre urgenze (i banchi, le aule, i percorsi, gli intervalli, il distanziamento, i traslochi…). Il ragazzo si ferma, la guarda con gli occhi che dicono già tutto, sul suo volto maghrebino: “Non importa prof, non si preoccupi: l’importante è che siamo ripartiti”.



Cambiamo scuola e andiamo in una prima media, alla quarta ora di lezione. L’insegnante di lettere entra, pulisce la cattedra lasciata dal collega dell’ora precedente, si siede, fa l’appello. Prende un libro dalla borsa, lo apre e inizia a leggere. Purtroppo non riesce a scorgere i volti degli alunni nelle ultime file, regolarmente distanziati tra loro e dalla cattedra. Si alza, rimanendo al suo posto, e si scusa con gli alunni: “Sono abituata a passeggiare per la classe, quando faccio lezione; oggi mi fermo qui, ma sto in piedi, perché ho bisogno di vedervi”. “Ma prof, passeggi, mettiamo su la mascherina”. C’è chi dice addirittura di mettere un banco in mezzo ai loro. La prof sorride, non c’è spazio per un altro banco in mezzo all’aula, ma l’entusiasmo dei suoi alunni le suggerisce che le parole che sta leggendo hanno un terreno fertile su cui cadere.



Poco prima dell’inizio della scuola, un vicepreside si trova a seguire gli operai incaricati dei traslochi e degli sgomberi, chiamati ad aiutare la predisposizione degli spazi per l’ormai imminente rientro. Per poter accogliere tutti gli alunni, le aule della sua scuola hanno bisogno di essere liberate dagli armadi e dagli arredi accessori, che ruberebbero metri preziosi per i banchi. È fine agosto, fa caldo, e il vicepreside ha trascorso tutta estate insieme al dirigente ed allo staff a riprogettare la logistica e l’organizzazione didattica dell’istituto; in un’aula c’è una vecchia pedana da smantellare. Gli operai la smontano, ne portano via i pezzi. Alla fine del pomeriggio uno di loro si avvicina al vicepreside, chiedendo dove possa trovare una scopa per pulire la segatura rimasta nell’aula. “Che bello”, pensa il vicepreside, “che un uomo si prenda cura così di un particolare, che voglia lasciare un lavoro ben fatto”. Non è scontato, racconta, confidandomi di aver riconosciuto nel gesto di quell’uomo lo scopo della scuola, il senso del suo lavoro, e che al sentire quelle parole è riaffiorato in lui (preciso come non mai) il desiderio che i suoi alunni possano un giorno, qualunque sia la professione che eserciteranno, avere nell’animo ciò che ha suscitato quella domanda dell’operaio, segno di amore alle cose e assunzione libera della responsabilità dell’uomo che opera nella realtà.



Il figlio di un amico frequenta la seconda liceo in una scuola di una grande città. Come molte superiori, la sua scuola ha attivato la Didattica digitale integrata, scegliendo però di non dividere a metà le classi, facendo andare a scuola – alternati – due gruppi di alunni (come accade in diversi istituti del territorio). Il suo liceo ha optato per un’alternanza a classi intere: una settimana sono in presenza tutte le prime, le terze, le quinte; la settimana dopo sono le seconde e le quarte a sentire dal vivo il suono della campanella e la voce dei loro insegnanti. Per il numero elevato degli alunni, però, quando vanno a scuola non possono rimanere nelle aule (non vi sarebbe distanziamento fisico necessario), perciò hanno messo delle file di banchi opportunamente disposti negli atri e in luoghi più spaziosi. Alla sua classe è toccato un corridoio nello scantinato, con tre file così lunghe che gli ultimi alunni faticano a vedere l’insegnante, che fa lezione senza lavagna, con il supporto soltanto di un proiettore portatile attaccato a un pc in cui la linea internet non prende bene. Ma anche a lui questo non interessa, come al ragazzo della bici: è contento di essere tornato a scuola e di poter rivedere dal vivo i suoi compagni e i professori.

È in queste brevi cronache della ripartenza, raccolte con entusiasmo dalla voce di amici insegnanti sparsi nelle regioni di tutta Italia, che trovo la verità di quello che accade oggi nella scuola. Un luogo di rapporti vivi dentro cui si snoda un’avventura che non lascia mai uguali a sé stessi alunni e insegnanti, e che ha bisogno soltanto, nell’adulto, di uno sguardo appassionato e di un cuore vivo, aperto ad accogliere e a prendersi cura dell’altro che trova davanti a sé.

Se c’è questo un insegnante può avere una Lim o non averla, può usare dei libri o farne a meno, può fare lezione in un atrio, in una palestra o un giardino, ma avrà compiuto il mandato più alto e bello della sua professione: quello di proporre agli alunni una strada, camminando e crescendo con loro, nella gratitudine della riscoperta, in questo strano inizio, di ciò che vibra da sempre nelle aule scolastiche.