Caro direttore,
è esperienza quasi giornaliera, ormai, leggere articoli relativi alla cosiddetta “emergenza educativa”. La gran parte degli autori è in grado di proporre un’analisi della situazione intelligente e accurata. Vengono evidenziati elementi più o meno macroscopici che riconosco anche nei miei studenti e che magari prima di una data lettura non avrei considerato rilevanti: un certo modo di approcciarsi alle relazioni con l’adulto o con i pari; un certo modo di utilizzare i social o chiudersi nel proprio silenzio (che spesso urla un terribile disagio).
Ultimamente, un certo modo di confrontarsi con il proprio corpo e la propria sessualità e un certo modo di affrontare l’ansia dello studio e della valutazione, fino alla scelta di abbandonare la scuola. È emblematico in questo senso il caso del Liceo Berchet e dei suoi 56 abbandoni.
Tutte emergenze gravissime, che urlano un disagio sempre più evidente. Ragazzi, “giovani”, che chiedono. Ma chiedono “cosa”, “a chi”?
Spesso al termine della lettura di questi articoli sono colta da un generale malessere. Se infatti è ricorrente una precisa diagnosi della malattia, è rarissimo che qualcuno proponga una cura. Eppure io ho bisogno di una cura. Una cura che non si limiti ad un pur buono “dover essere” o “dover fare”, che schiaccia non solo gli allievi, ma anche me in un’ansia da prestazione che toglie il gusto del mio lavoro.
La domanda diventa più acuta: non solo cosa devo fare, ma perché dovrei? Perché io, docente di lettere, dovrei farmi carico del grave onere di sostenere i miei allievi?
L’altro giorno ho domandato ad un collega al suo primo anno di insegnamento un bilancio di questo inizio. Mi ha detto di essere molto contento, anche se un aspetto in particolare ha chiesto molta fatica: “la parte più dura di questo lavoro è l’implicazione umana. Quando i ragazzi ti buttano addosso i loro disagi, quasi manca il fiato. È difficilissimo affrontare il loro dolore”. Penso che il punto sia proprio questo, chiedermi se io – genitore, insegnante, educatore che sia – ho un motivo valido per affrontare l’implicazione umana che l’emergenza mi chiede. Cos’ho da proporre, io, davanti alla tua fatica?
In un testo del 1968, esponendo il percorso che ha condotto gli apostoli alla fede nella persona di Gesù, don Luigi Giussani – straordinario educatore – scrive che i discepoli “Credettero per una presenza. Una presenza non glabra o ottusa, una presenza non senza faccia: una presenza con una faccia ben precisa, una presenza carica di parola, cioè carica di proposta. Credettero per una presenza carica di proposta. Una presenza carica di proposta è, dunque, una presenza carica di significato”.
Quante volte, davanti ad un volto significativo, io rinasco. Davanti ad un amico caro, davanti a mia madre o mio padre, davanti a chi non mi fa sconti sulla vita io non ho più paura della vita, così come essa si pone. Ma occorre, come dice Giussani, che sia un volto “carico di proposta”. E perché io possa avere questo volto per i miei allievi, devo a mia volta poter fissare lo sguardo in chi non teme la mia umanità, ma la abbraccia.
Il problema allora non è l’emergenza degli figli, ma l’emergenza dei padri. Chi, tra noi, ha la possibilità di essere a sua volta accompagnato in questa avventura? A quel collega, che così sinceramente raccontava di sé, mi sono sorpresa a rispondere dicendo che proprio quel punto di sfida umana è ciò che rende appassionante il mio lavoro, è il motivo per cui vale la pena di affrontarlo. Davanti alla ferita dell’altro emerge la mia consistenza o debolezza, emerge chi sono. Come è possibile non temere questa vertigine?
Solo in forza di un padre che a sua volta sostenga me, a cui sempre devo decidere di tornare. La mia sola responsabilità è questa, nei confronti di ciò che l’implicazione umana ha risvegliato in me. È la sola reale responsabilità che posso giocare davanti ai miei allievi. Ne nasce un gusto per quel che vivo inimmaginabile, una nuova creatività nel gesto educativo, pur nell’inevitabile limite del tentativo. Ricorda sempre Giussani, nel 1999: “La gratitudine per avere incontrato un padre che ci ha introdotto al rapporto con il Padre così come Cristo lo ha vissuto ci fa desiderare di condividere con tutti la grazia che abbiamo ricevuto”.
Noi, chiamati ad essere padri e madri, da chi dipendiamo? Chi guardiamo? Chi ci accompagna a non temere prima di tutto la nostra umanità, la nostra ferita? In questi interrogativi si gioca, credo, la possibilità di essere quelle presenze cariche di proposta che i ragazzi anelano. Esattamente come ognuno di noi.
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