Molti decenni fa, quando frequentavo il liceo classico Berchet di Milano, un docente di italiano assegnò il tema “Lucia Mondella”. Un nostro compagno consegnò, come svolgimento, un’unica frase: “Inetta a vivere”, e ovviamente prese zero. Devo confessare che alla richiesta di dare un parere sulle linee guida per la riapertura della scuola, immediatamente seguita da una richiusura a fini elettorali e, suppongo, da una ri-riapertura e forse da una ri-ri-chiusura per i ballottaggi eccetera, la tentazione di imitare quell’ormai remoto compagno è stata fortissima. Ma tiremm innanz, visto che vivo a Milano, e proviamo a riunire qualche idea.



1) La prima sensazione è che non ci siano né le linee, né la guida. Contrariamente a molti dei commenti che sono stati fatti, io sono del tutto favorevole a decentrare alle scuole e alle Regioni le decisioni operative, all’interno di un quadro definitorio molto preciso (avete presente il concetto di autonomia, di cui ricorrono i vent’anni giusto in questi mesi?). Il problema è che, da un lato, manca totalmente il quadro definitorio e, dall’altro, i soggetti su cui è stata caricata la decisionalità non sono in condizione di esercitarla, perché non controllano nessun tipo di risorsa. Quando si cercò di far corrispondere alla qualifica di dirigente una qualche accresciuta decisionalità si scatenò la narrativa del “preside sceriffo”. E qui il tacere è bello.



2) Sulle risorse, benissimo che siano accresciute, chi non sarebbe d’accordo? Due osservazioni. La prima: che le risorse sono fondamentali per realizzare un progetto, ma oltre alle risorse dovrebbe esserci il progetto. Che, tanto per cambiare, non c’è. La sicurezza non è un obiettivo didattico, ma se mai una condizione, e il ministero fa due errori, legifera in un settore non suo e totalmente imprevedibile, e al solito pensa a partire tutti insieme appassionatamente senza tenere conto delle circostanze e delle risorse disponibili.

La distribuzione a macchia di leopardo del virus dovrebbe essere un incentivo a flessibilizzare, per far fronte ai cambiamenti in tempi brevi, e anche a responsabilizzare le scuole, senza lo spauracchio delle conseguenze penali. Investire i soldi in più per assumere nuovi insegnanti senza alcuna preoccupazione di vagliarne l’effettiva adeguatezza (e del resto non ci sarebbe il tempo di farlo) non (ripeto: non) migliora la qualità del servizio. Questa potrebbe essere l’occasione per ripensare in modo operativo a tutta l’annosa vicenda della formazione, reclutamento e carriera dei docenti, non per risolverla entro il 14 settembre, ma per arrivare nel giro di uno o due anni a un sistema con qualche garanzia di funzionare.



3) I genitori, gli studenti e i docenti in piazza hanno molteplici motivi per protestare, e li hanno da molti anni, ma due che vanno per la maggiore sono fuori luogo. Le classi pollaio non esistono più da anni e anni, se non altro per motivi di decrescita demografica, se non in rarissime eccezioni, ed è stato dimostrato fino allo sfinimento che entro certi limiti non (ripeto: non) costituiscono un elemento significativo di miglioramento della qualità.

Il problema degli edifici, che sono troppo spesso inadeguati o fatiscenti (ci sono in verità anche edifici nuovi di zecca prodigalmente immaginati in anni di baby boom e poi destinati ad altro) non (ripeto: non) si risolve entro settembre. Anche qui, ottima occasione per una rilevazione dei fabbisogni – uno dei punti positivi delle linee guida – e una progettazione di medio periodo che non si limiti a metterci una toppa, ma avvii una soluzione definitiva.

4) Le famiglie che vogliono garanzie sul ritorno a scuola dei ragazzi dovrebbero puntare ad altro. Che cos’è questo “altro”? Ancora una volta, la sicurezza è fondamentale e va gestita da chi ne sa, prevedendo gli aggiustamenti necessari, ma non si va scuola solo con la certezza che ognuno ha la sua mascherina e si siede a un metro di distanza dal suo vicino (o meglio, dalla sua “rima buccale”, termine utilissimo per i giocatori di Scarabeo). La serie di articoli di Carlo Verdelli che fa notare l’irrilevanza della scuola fra le priorità dei decisori politici, e contemporaneamente la sua centralità nella vita della società, andrebbe meditata a lungo. Quando ero all’Ocse-Ceri, era evidentissimo che le nazioni a maggiore sviluppo economico (le Tigri asiatiche, per esempio) avevano investito in formazione più ancora che nei settori immediatamente produttivi, ma in Italia si continua a pensare ai fondi per l’istruzione come a una spesa, e non a un investimento.

“Altro” vuol dire allora una seria riflessione sui profili professionali domandati e previsti in uscita; sulle conoscenze, abilità e competenze che fanno di un ragazzetto una persona, un cittadino e un lavoratore responsabile, dotato di senso critico e motivato alla partecipazione; sulle caratteristiche organizzative e di governo che dovrebbe avere una scuola per individuare e raggiungere i propri obiettivi; sulle caratteristiche della professionalità docente e sul modo di ottenerle.

Si è perso moltissimo tempo, scaricando le responsabilità sulle famiglie, e anche sulle molte scuole (statali e paritarie) che hanno cercato di continuare un progetto educativo e non solo di cura, senza avere un riconoscimento formale della possibilità di azione: la scuola italiana è fra quelle chiuse più a lungo, ma questo non sembra aver prodotto nessun tipo di riflessione e tanto meno di conseguenza operativa.

Forse uno dei pochi esiti positivi di questo periodo è stata la presa di coscienza di molte scuole, molte più che in passato, che possono essere autonome, e quindi possono rivendicare quell’autonomia di cui dispongono sulla carta. Per cambiare in questo senso, se si vuole che il rientro a scuola sia anche la ripartenza per una diversa percezione della scuola, di cui oggi le famiglie e l’opinione pubblica sembrano fortunatamente più consapevoli che in passato, serve una decisionalità politica forte, concorde e di ampio respiro, non il tentativo di strumentalizzare lo scontento.

Lo sviluppo dei rapporti con le Regioni non è particolarmente promettente da questo punto di vista, ma la ministra dice “non sono sola, il mio partito è con me”. Meglio soli…?

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