La sfida non è delle più facili, per le due classi terze che accompagniamo. Tuttavia il lavoro personale di preparazione svolto nelle ultime settimane sulle vicende belliche intorno al Monte San Michele e sulle poesie di Giuseppe Ungaretti, che proprio lì ha vissuto e composto alcuni tra i suoi versi più conosciuti, mi riempie di agitazione: fremo dalla voglia di rivedere il luogo alla luce delle mie ultime scoperte.
Si impongono all’attenzione una serie di domande: la cronaca delle manovre militari intrecciate alle parole di quel prezioso diario che è Il porto sepolto (che riporta data e luogo di ogni componimento) saranno in grado di far scoprire qualcosa di quel mistero insondabile che è l’essere umano? Sapranno testimoniare che la realtà è positiva sempre? Che vale la pena impegnarsi con la propria vita anche quando le circostanze sembrano dire tutt’altro?
Avvicinandoci in pullman al Monte San Michele mi diventano più evidenti i rischi di questa visita da me fortemente voluta e ronzano nella mia testa alcuni quesiti: quello che vedremo sarà comprensibile agli studenti? Sarà per loro un’esperienza reale di apertura dello sguardo sulla realtà?
Il ricordo dei resti delle trincee nascosti tra la vegetazione oggi discretamente rigogliosa rafforza le preoccupazioni: davanti a normalissime colline boscose sarà difficile immaginare un terreno roccioso spoglio di vegetazione ma pieno di uomini in divisa calcati nei reticolati scavati nella roccia.
Scesi dal pullman sul piazzale antistante il Museo della Guerra mi accorgo immediatamente di avere due alleati.
Il tempo grigio e freddo mostra un ambiente di per sé ostico: il Monte San Michele, rilievo anonimo, di modestissima altitudine (275 m slm), affacciato sulla valle dell’Isonzo, conosciuta solo per i trascorsi bellici appunto.
Trovo un altro alleato nella collaborazione di alcuni alunni che hanno accettato di studiare a memoria e recitare durante la lezione alcune tra le poesie di Ungaretti da me selezionate. Già in viaggio si sono dimostrati preparati e convinti di fare la loro parte. I volti di alcuni di questi mi sorprendono, perché vibrano della stessa muta agitazione che mi accompagna fin dalla partenza. Certo, per usare un eufemismo, diversi di loro non sono tra i più appassionati all’impegno scolastico, ma l’adesione spontanea e volontaria mi fa ben sperare. Sono ancora più stupito di aver trovato facilmente due collaboratori incaricati di starmi vicino e di sostenermi nel districo di testi e fotocopie sulle quali ho preparato la sequenza di letture, recitazioni e spiegazioni. Quindi i due devono capire in fretta come si svolge la lezione per passarmi i materiali necessari. Stupisce che entrambi siano ripetenti e che, al netto di un interesse per la storia, lo studio non è la loro principale preoccupazione. Tuttavia questa compagnia cordiale e costruttiva si rivelerà una sorpresa inaspettata per l’intera gita.
Insieme ai miei due alfieri raduniamo le classi sulla terrazza affacciata sulla valle dell’Isonzo di fronte al Museo della Guerra.
Il lungo viaggio appena concluso non facilita le operazioni e conquistare l’attenzione degli studenti si rivela più complicato del previsto. Ma i primi minuti della lezione sono determinanti per il buon avvio dell’intera giornata: siamo lì per uno scopo, per un’avventura alla scoperta di qualcosa di avvincente, non solo per un’allegra scampagnata. Fin da subito bisogna vincere l’inerzia per immedesimarsi o almeno riuscire ad immaginare le condizioni dei soldati che lì hanno vissuto a partire dall’estate del 1915.
Non posso dare per scontato che tutti abbiano chiaro il contesto storico, perciò, rapidamente per non annoiare, ricordo quale sia il sistema di alleanze che, allo scoppio della Grande Guerra nell’estate del 1914, vede il Regno d’Italia partecipare alla Triplice Alleanza con l’Impero Austro-Ungarico e con il Secondo Reich tedesco. Nonostante il legame militare, il regno sabaudo sceglie la neutralità, forte del fatto che per i due imperi il conflitto è offensivo, infatti hanno preso loro l’iniziativa bellica dichiarando guerra a Serbia e Francia.
Dopo forti manifestazioni pubbliche nel maggio del 1915 l’Italia entra in guerra a fianco della Triplice Intesa, con Francia, Inghilterra e Impero Russo contro gli ex alleati. Perciò il confine nord-orientale diventa il luogo in cui i militari in grigioverde sono costretti ad attaccare per scalzare i nemici, che restano in posizione di difesa a causa dei pochi mezzi a disposizione perché molte truppe della Triplice Alleanza sono già impegnate sul difficile fronte russo.
Inizio ora il racconto vivo del posizionamento delle truppe. Gli ungheresi occupano la cima del Monte San Michele alle spalle degli alunni, mentre sotto la terrazza gli italiani sono costretti ad attaccare salendo lungo il versante allora completamente spoglio e inciso dalle trincee dentro le quali si proteggono dal fuoco nemico. È complicato immaginare che una modesta cima oggi circondata da vegetazione possa avere avuto un valore strategico, tuttavia allora pareva averne, perché si diceva aprisse la via alla conquista della città di Gorizia e da lì al cuore dell’Impero asburgico.
Per essere più efficace nel ricreare quell’ambiente immaginario leggo stralci di alcuni documenti, come le circolari del capo di stato maggiore generale Luigi Cadorna o lettere scambiate tra i ministri più importanti e lo stesso generale. Il tutto rende chiaro quanto le autorità fossero inconsapevoli dei mezzi, dei tempi e dell’impegno economico e in vite umane a cui quella guerra portava l’intera nazione. Con gli occhi di oggi si potrebbe considerare “un grave errore di calcolo”.
“Tre settimane dopo l’inizio delle ostilità, Cadorna scrisse a Salandra (presidente del Consiglio dei ministri, nda) che la guerra sarebbe durata almeno fino all’anno dopo (in realtà durerà tre anni e mezzo, nda) e che perciò bisognava provvedere a equipaggiare la truppa per l’inverno e a fabbricare armi e munizioni. Per Salandra, fu una doccia fredda. Poco tempo prima, al suo ministro delle Finanze, Nitti, che gli chiedeva se i magazzini erano in grado di rifornire le linee fino a primavera, aveva risposto: ‘Il tuo pessimismo è veramente inesauribile. Credi che la guerra possa durare fino allora?’”. (Indro Montanelli, Storia d’Italia, RCS Quotidiani, Milano, 2003, vol. 6° p. 491).
Di contro alla leggerezza dei comandanti, le testimonianze dei militari al fronte aprono uno squarcio di luce sulla loro reale condizione: quella di un popolo che si trova a combattere senza ragioni chiare e condivisibili, con uno spirito di obbedienza e talvolta di patriottismo privo di entusiasmo.
Un paio di letture tratte da una raccolta poetica dello scrittore ungherese Gustav Heinse, che tanto assomigliano ai versi che Ungaretti compone sul medesimo monte solo qualche centinaio di metri più in basso, raccontano di come la condizione dei soldati tra loro nemici sia del tutto simile anche nel non lasciarsi annichilire dalla brutalità della guerra. È sufficiente loro una fioritura primaverile per richiamarli all’amore per la vita:
San Martino. Settore B, 20 febbraio 1916
E vengono giorni quieti, sereni, / quando sì e no esplode un colpo, / uno shrapnel o una granata. // Nella scarpata si rivedono fili d’erba / E sul pianoro dei fiori. / Insopportabili sono soltanto i tascapane Nei reticolati. // Ma nelle notti, nel cavallo di Frisia / Le mani lacerate / E i berretti al vento / Non si vedono più. // Si potrebbe dimenticare che i giorni per noi sono contati, / tanto sono belli; / fintanto che i riflettori non saettano / e nelle doline le bocche non brillano di pesanti cannoni
(G. Heinse, da Il monte in fiamme, Ai morti del San Michele e di San Martino del Carso, 1915/1916, 1937, Kolibris).
Seppure non in modo uniforme tra i ragazzi emerge già una più cordiale disponibilità all’ascolto. È il momento di introdurre il poeta che siamo venuti a incontrare.
Giuseppe Ungaretti arriva al fronte con la brigata Brescia nei giorni di Natale del 1915 e viene inviato direttamente in trincea. L’esperienza traumatica della guerra in prima linea traccia subito un segno nella nostra mattinata: la voce che recita la prima poesia trema sotto lo sguardo dei tanti che, colti alla sprovvista, si voltano sorpresi. Le parole di “Veglia”, quasi caricaturali per la feroce espressività, qui producono un silenzio inaspettato. Diventa un po’ più semplice immaginare il soldato semplice Ungaretti coricato nel fango di una trincea accanto a un commilitone ormai cadavere; ma che stupore il richiamo all’amore viscerale per la vita dei versi conclusivi!
Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore // Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita.
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
(Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo, Mondadori, Milano 1992).
Ora sì che la lezione può dirsi avviata. Possiamo trasferire il gruppo di qualche centinaio di metri sopra la vetta arrotondata del monte, tutta incisa di trincee difensive e da cui si vedono in lontananza il mare e la città portuale di Monfalcone. Come già detto, la giornata non è limpida ma si coglie comunque il riflesso azzurro in lontananza, e sotto di noi la pianura su cui centinaia di migliaia di soldati hanno lottato e si sono vicendevolmente massacrati.
Ci si raduna abbastanza rapidamente e si riguadagna ora l’attenzione senza grande fatica. Ascoltiamo uno spezzone di canto alpino e poi la lettura delle testimonianze più cruente dell’attacco ungherese del 29 giugno 1916 coi gas asfissianti. Ungaretti era stato spostato dalla linea del fronte solo il giorno prima. Si salva quindi per una fatalità, ma vede certamente i corpi martoriati dei morti per asfissia.
A quei giorni risalgono le composizioni Peso, Dannazione e Fratelli. Alla recita di ogni pezzo segue una brevissima spiegazione, a sottolineare come il dramma spalanchi nel poeta una posizione umana interessante di riflessione e di domanda, finanche di grido: l’invidia per la fede ingenua del contadino che pare più saldo davanti alla tragedia; il contrasto tra la finitezza di ogni esperienza umana e il desiderio di infinito; la naturale percezione di fratellanza umana anche con gli sconosciuti, una fratellanza però che non rasserena.
Dannazione
Chiuso fra cose mortali // (anche il cielo stellato finirà) // Perché bramo Dio?
Mariano il 29 giugno 1916
(G. Ungaretti, cit.)
Il clima di ascolto, ora teso e concentrato, permette l’affondo finale: la conquista italiana del monte nell’agosto del 1916.
Dopo l’ascolto di un altro canto alpino narro la conquista italiana senza colpo ferire del Monte San Michele in seguito al ritiro silenzioso degli ungheresi nella notte tra il 9 e il 10 agosto.
La festa è grande, perché sembra che la guerra sia a una svolta. Ecco le parole che per l’occasione Ungaretti scrive all’amico Giovanni Papini:
Caro Papini, dal San Michele conquistato un abbraccio.
Tuo Ungaretti
ps
Ho visto cose meravigliose: il miracolo: i feriti non avevano dolori: gli altri, non potevano essere frenati: era un grido di una passione infinita: “Si vede il mare, si vede il mare”: lo spazio finalmente, caro Papini: fuori di pazienza, ci siamo arrivati!
(Nicola Bultrini, Lucio Fabi, Pianto di pietra. La grande guerra di Giuseppe Ungaretti, Iacobelli, 2018, p. 75).
Chiedo a tutti di voltarsi verso il mare per ascoltare Cielo e mare che successivamente diventerà la meglio conosciuta Mattina, in cui l’autore fa memoria dell’emozione provata nel vedere il mare una volta salito sul Monte San Michele. Ma quel punto di luce esteriore in realtà vibra nel profondo del poeta che si sente investito dalla luce anche nel pieno manifestarsi del male della guerra: è la descrizione di un paesaggio interiore per nulla schiacciato dal conflitto.
Mattina
M’illumino / d’immenso
Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
(G. Ungaretti, cit.)
Neppure il massacro, quel massacro unico nella storia umana, ha demolito completamente l’io del poeta. Ungaretti continua a intravvedere una realtà positiva e in dialogo con l’immensità.
A portare la tensione all’apice un ultimo ascolto di un coro alpino.
Il percorso potrebbe anche terminare qui, ma mi preme chiarire che presa Gorizia la guerra continua, solo qualche chilometro più in là. Nel frattempo Ungaretti rimane lontano dai combattimenti e si dedica alla scrittura, pungolato da un amico conosciuto sul Carso, un giovane ufficiale appassionato di letteratura di nome Ettore Serra, che edita a proprie spese la raccolta Il porto sepolto in 80 esemplari.
È giunto il momento di stemperare la tensione e di avventurarsi a piedi sui sentieri che percorrono il monte alla ricerca di gallerie, trincee, camminamenti e cippi che ricordano gli avvenimenti di quell’anno di guerra. Camminando si inizia a scherzare, ci si riscalda un po’ dal freddo. Tra quelli che mi tallonano, pur senza saper bene cosa dire, i più non sono alunni della mia classe. Percepisco in quella compagnia timida che un fatto è accaduto, qualcosa è successo: il cuore di alcuni di noi ha vibrato.
Ora sì che la gita può dirsi iniziata davvero!
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