Il dibattito politico estivo si è acceso sul tema dello ius scholae, ovvero la possibilità di concedere la cittadinanza ai figli degli immigrati stranieri che hanno frequentato scuole italiane.

L’introduzione di questo automatismo, a detta di chi lo propone, favorirebbe l’integrazione di persone con cittadinanza straniera. Vorrei porre alcune riflessioni personali a riguardo.



Sono nato in Svizzera negli anni 70, figlio di emigrati italiani che da venti anni si erano trasferiti là dal Sud per poter lavorare e costruirsi un futuro. La loro è stata una scelta sofferta che ha provocato una ferita mai rimarginata, abbandonando parenti, cultura e tradizioni in cui erano cresciuti.

Ad un certo punto decisero improvvisamente di tornare in Italia. Ormai grande ho chiesto loro le ragioni di quell’ennesimo cambio di vita. “Non volevamo che i nostri figli diventassero svizzeri – mi risposero – e che crescessero in quel Paese, volevamo che fossero italiani”. In quel momento noi figli avremmo dovuto iniziare le scuole e crescere radicati all’interno di un nuovo Paese, di una nuova cultura profondamente diversi da quello in cui erano cresciuti i miei genitori.



C’era qualcosa di diverso in quella realtà, a cui sentivano di non appartenere. Le motivazioni economiche che li avevano spinti a trasferirsi non bastavano a colmare l’assenza di quel modo di concepire la vita che avevano sperimentato nel loro Paese di origine.

Forse più di ragionare su un automatismo per ottenere la cittadinanza, bisognerebbe capire cosa rende così diverso il nostro Paese dagli altri e se le tante persone che hanno raggiunto l’Italia desiderano vivere e convivere con una cultura, un modo di vedere la vita, la realtà e la religione (da cui deriva la nostra cultura) diverso dagli altri.



Tutto questo dove può essere appreso o dove viene trasmesso?

Certo non a scuola.

Qualche anno fa in una scuola media, mentre facevo lezione, entrò nella mia classe una bidella gridando aiuto. Un alunno di origine africana stava picchiando i bidelli perché voleva uscire da scuola e non gli era permesso, mi chiesero di fermarlo e per due ore cercai di calmarlo provando a parlare con lui. Mi raccontò – grazie a uno smartphone con Google translate – che era entrato tardi in classe, i suoi compagni erano usciti per un’attività didattica in città e lui voleva raggiungerli. Nella sua cultura era abituato ad entrare ed uscire da scuola senza che nessuno lo potesse fermare, parlava una lingua dell’Africa centrale e pochissimo francese, lingua che a scuola non era conosciuta da nessuno. Considerava incomprensibile non poter uscire da scuola a suo piacimento per raggiungere i compagni. Dopo quel momento siamo diventati amici, ma da lì a qualche mese quel ragazzo è tornato in Africa per visitare i parenti e non è più tornato. Nessuno lo ha cercato, nessuno ha più avuto notizie.

In 15 anni di insegnamento nella scuola statale non ho mai visto una mediatrice culturale, una mediatrice linguistica, un progetto educativo che mettesse a tema una reale integrazione con la famiglie, un tentativo di dialogo con le famiglie che non fosse una convocazione a scuola per comunicare gli esiti negativi dell’andamento scolastico del figlio. Quasi sempre viene attivato un mini-corso di alfabetizzazione per stranieri di qualche ora, assolutamente inutile, considerando che spesso anche chi è nato in Italia continua a parlare la lingua d’origine in famiglia.

Spesso i familiari lavorano, sopravvivono economicamente con stipendi miseri, rimanendo in rapporti quasi esclusivi con altre persone del proprio Paese di origine. Chi si preoccupa di costruire una relazione e un dialogo con le famiglie straniere – e per fortuna di esempi ce ne sono anche tanti nella scuola – lo fa per spirito di iniziativa personale, con grande fatica e certamente senza nessun riconoscimento da parte delle istituzioni.

La cronaca ci racconta di una generazione di adolescenti e preadolescenti in crisi. Assistiamo giornalmente a violenze di ogni genere, droga, suicidi, dipendenze da internet, eppure è una generazione che da anni viene riempita da ore di educazione civica, educazione alla cittadinanza, progetti di educazione affettiva e sessuale, educazione all’utilizzo dei devices informatici.

Tutti sanno che a 14 anni la maggior parte dei ragazzi avrà un motorino non a norma che farà molto di più dei 45 km/h previsti dalla legge; tutti fanno finta di niente eppure siamo bravissimi ad organizzare progetti di educazione stradale che cercano di convincere i ragazzi al rispetto delle norme del codice della strada.

Nelle ultime elezioni politiche l’astensione più alta (42,7%) è stata nella fascia 18-34 anni; al tempo stesso i (pochi) giovani che si impegnano nei partiti e movimenti sono sempre più affascinati da realtà populiste o con idee estreme, conseguenza di una reazione di pancia al proprio vissuto o ai problemi della società in cui si vive. Potremmo continuare a fare esempi su alcol, droga, malattie sessualmente trasmissibili, in crescita significativa tra gli adolescenti negli ultimi anni, ma continuamente affrontati da anni sui banchi di scuola con corsi, lezioni e progetti di ogni tipo.

Bisogna che qualcuno primo a poi lo dica: la scuola italiana sta fallendo nel suo scopo educativo. Un fallimento lungo, continuato.

Nell’immaginario collettivo e dei politici, la scuola sarebbe diventata la terra promessa per salvare il Paese, educando al rispetto delle regole, alla convivenza, all’inclusione, alla sessualità, al lavoro e alla bellezza. Nei fatti si tratta di un carrozzone che a seguito delle continue riforme ministeriali, anche recenti, ha aumentato in modo insensato e ipertrofico la burocrazia e la produzione di documenti inutili, distogliendo sempre di più dagli alunni lo sguardo educativo dei docenti.

Nella scuola bisogna investire anche e soprattutto risorse economiche, per favorire all’interno di un’autonomia scolastica una progettualità che abbia a cuore anche l’integrazione.

Bisogna iniziare a valorizzare i talenti dal basso, ovvero quelle scuole, docenti e gruppi di docenti che hanno il desiderio di mettersi in gioco per ricostruire una scuola che educhi veramente al bene, al bello e al giusto, rimettendo al centro una parola fondamentale per l’educazione, ormai poco presente nella scuola, che è la relazione.

In un contesto del genere ha senso proporre un automatismo come lo ius scholae?

Esempi virtuosi di integrazione in Italia ce ne sono, ad esempio associazioni (come Portofranco, recentemente premiata dal presidente Mattarella per la sua attività educativa e di integrazione) e parrocchie, con una reale condivisione dei bisogni delle famiglie straniere, oppure lo sport (come hanno mostrato le recenti Olimpiadi), vero strumento di inclusione e integrazione molto più concreto della scuola. Lo sport è comunità, valori, rispetto dell’altro, allenamento per obiettivi, spirito di squadra e tanta fatica. Questi elementi sono presenti oggi nella scuola italiana?

Dovrebbero semmai essere queste realtà a poter decidere, dopo un lungo percorso di condivisone della vita, se le persone che aiutano o educano sono pronte per vivere in una comunità come quella italiana, condividendo – prima di valori, princìpi e automatismi – quella trama di rapporti umani che fanno del nostro Paese un luogo unico.

Senza investimenti e senza il ritorno ad un reale sguardo educativo fatto di condivisione, le discussioni sullo ius scholae sono tutte strumentali e utili a fini partitici, ma totalmente fuori dalla realtà.

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