Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati. Ogni giorno. (Pablo Neruda)

La vicenda dello stupro di gruppo a Palermo, che sta infiammando social e quotidiani locali e nazionali, ha fortemente provocato l’opinione pubblica suscitando forte indignazione e rimettendo al centro l’emergenza educativa in un agosto che vede molti ancora in vacanza, ma alla vigilia di un nuovo anno scolastico. Condivido di seguito quanto emerso da un confronto con alcuni amici insegnanti e una dirigente scolastica siciliani.



Non è certo questa la sede per un’analisi della gravissima vicenda le cui responsabilità sta agli inquirenti e ai giudici stabilire. Tuttavia, il furore mediatico che comprensibilmente ancora accompagna la vicenda – cui si è affiancato un analogo episodio nel napoletano – sembra abbandonare il fatto al mero sdegno nutrito dalla rassegna di post e messaggi dei protagonisti. Pare che nessuno spazio e nessun tempo siano lasciati per stare davanti al fatto. Si compie dunque quello strano paradosso – che solo i bambini non conoscono – per cui davanti un evento che sorprende, che è “fuori misura” e sconvolge, non si è mossi da un bisogno di conoscenza e dunque da una domanda. Da un lato avvertiamo che il fatto ci pone in crisi, ma non ci mettiamo in crisi. Come direbbe san Paolo, rimaniamo allo scandalo – dal latino scandălum, gr. σκάνδαλον “ostacolo, inciampo” – e tuttavia (umanamente ciò è comprensibile) non avanziamo nella conoscenza del fatto stesso. E sarebbe un peccato, vista la delicatezza e la rilevanza della questione. Per dirla con le parole di Papa Francesco durante la Pentecoste 2020: “Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla”. Lo scandalo non ci fa fare veramente i conti con la realtà ed è dunque espressione di una responsabilità monca e forse inconsapevolmente narcisistica: noi, i buoni della storia, urliamo l’odio contro i cattivi. Noi buoni sopra(v)vivremo, vivremo “sopra” tutto ciò che ci scuote.



Ma il sentirsi “a posto” ci contrappone all’altro che avverto diverso da me. E ciò finisce per generare altra violenza. Diceva san Giovanni Crisostomo che “il mio e il tuo” diventano fredde parole che introducono nel mondo infinite guerre. Negare la dignità di chi non corrisponde alla visione che ho del mio interesse non costruisce. Prendere sul serio il “colpo” accusato e la sua gravità esige il coraggio di guardare dentro la ferita ed ascoltare il fatto. Non certo cedendo al voyeurismo che alimenta la caccia ai dettagli. Ma ascoltando il dolore per la violenza irreversibilmente subita, e la cui gravità forse riusciremmo a sentire maggiormente se fossero – tutti, la ragazza e i suoi carnefici – figli nostri. Vale la pena chiedersi: Cos’è questo fatto che ci addolora? Perché sono mortificate la persona e la sua umanità? Cosa è umano e cosa no?



Queste domande offrirebbero una pista per rispondere a un’altra importante domanda che riguarda il prima del fenomeno: come è stato possibile che l’umanità di questi giovani si sia ridotta fino a questo punto?

Per comprendere l’iceberg sommerso che si cela dietro tali comportamenti di alcuni giovani di oggi bisogna che l’adulto si implichi stabilmente con loro in un dialogo che apra a un’ipotesi di senso – sempre che l’adulto ce l’abbia –, di domanda e ascolto: “che cosa ami tu? Che cosa attendi il sabato sera quando esci con gli amici? Chi è veramente un amico? Cosa o chi ti è caro? Cos’è la sessualità? E da che cosa fuggi quando esci di casa? Cosa ti fa paura?”.

Fra le tante immagini possibili di ciò che è lecito o “di moda” ritenere umano, degno del nostro tempo e del nostro agire, è nell’esperienza che si rivela ciò che cor-risponde al nostro desiderio di bellezza, amore, giustizia, che Luigi Giussani ne Il senso religioso chiama “l’esperienza elementare”. Non dobbiamo dimenticare l’io concreto, ad ogni età, e l’io può rinascere nella sua esigenza di significato solo in un rapporto autentico, carico di una proposta all’altezza di tutta la profondità, larghezza e ampiezza del desiderio umano. Come ha recentemente detto il presidente Mattarella chiudendo l’ultima edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli: “Ecco, ancora una volta, perché il sentimento dell’amicizia supera la qualità – che sovente gli viene attribuita – di mera terapia contro la solitudine; di edulcorante dell’esistenza; e riconferma, il suo valore, di scelta sociale e politica; su cui, nella dimensione della comune appartenenza all’unica famiglia umana e nella dimensione dell’incontro, fondare la società, il rapporto con gli altri popoli”.

L’urgenza che avvertiamo è quella di essere in tal senso “amici” dei giovani, come ha fatto don Pino Puglisi (altro protagonista del Meeting), farci carico della loro fragilità conoscitiva prima ancora che etica. E proprio sul tema dell’amicizia, sempre alla kermesse riminese, mons. Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei, ha ribadito da un lato l’importanza di incontrare un amico il cui fascino vinca le resistenze personali, poiché ciò che può cambiare ciascuno di noi non è il discorso sull’amicizia, ma un amico che mi voglia bene, che si pieghi su di me e che sia capace di penetrare nella mia solitudine e aprirla all’alterità; dall’altro, la disponibilità (che non è spontanea ma è naturale) a lasciarsi amare e a lasciarsi anche perdonare, in quanto generalmente ciò che prevale in noi è l’autosufficienza, per cui possiamo anche fare a meno dell’altro nel tentativo illusorio di salvarci da noi.

Questo atteggiamento noi consideriamo autenticamente responsabile ed esso è impossibile senza un’amicizia che sia anche sociale, politica: un’amicizia che lega i prossimi, i cives, non solo uguali ma altri, e viva della condivisione del destino della città.

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