Competenze e attitudini vengono affiancate alle conoscenze come risorse utili a ricentrare la scuola nel suo compito fondamentale di educazione della persona. Pensare però che esse siano di per sé risolutive significa considerare esse stesse finalità dell’educazione anziché strumenti della stessa, contribuendo così a concepire lo studente come un meccanismo del sistema aggiornato ai tempi e alle necessità di oggi, le quali ricercano profili dinamici, pronti all’aggiornamento, ad apprendere, a collaborare e adeguarsi ai mutamenti vorticosi della tecnologia, della società e dell’economia; più che la conoscenza oggi pare valere la malleabilità, la capacità di adattarsi e apprendere nuovi scenari per essere sempre più performanti.



La performance infatti è divenuta il vero grande obiettivo che riscuote ampio interesse sociale ed economico. Perciò risultano più funzionali termini quali competenze e character skills che non le conoscenze che invecchiano rapidamente soprattutto nell’ambito tecnologico, o delle quali non sono chiari i nessi con la vita reale (ad esempio, lo studio del latino e del greco, ma si potrebbe dire lo stesso del disegno tecnico, della musica, dell’arte, dell’astronomia, della poesia eccetera).



Importanti studiosi hanno lanciato però l’allarme rispetto a un’educazione di tipo performativo. Secondo il filosofo Umberto Galimberti “Diventerà [l’uomo] uno strumento, esattamente come i mezzi che abbiamo a disposizione per lavorare. Le due forze che ci governano, oggi, sono il mercato e la tecnica” (Umberto Galimberti e Julián Carrón, Credere, Piemme 2022, p. 76).

“La tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non dice la verità: la tecnica funziona. […] I suoi valori sono: efficienza, velocità e produttività” (U. Galimberti e J. Carrón, cit., p. 87).



Secondo lo psicanalista Massimo Recalcati, “uno dei problemi della scuola oggi è che gli insegnanti sono oppressi per la maggior parte del tempo da mansioni che esulano completamente dall’attività didattica, cioè dal compito specifico dell’insegnamento. L’ora di lezione, che dovrebbe essere il cuore pulsante della scuola, è marginalizzata da attività che esulano dalla didattica in senso stretto, schiacciata sotto la pressa di una valutazione sempre più ridotta a misurazione. Alla scuola centrata sull’erotica dell’insegnamento si sostituisce la scuola performativa della trasmissione delle competenze. Il principio di prestazione surclassa il processo di erotizzazione del sapere. L’allievo non è più una vite storta (che il docente deve raddrizzare), ma una macchina che deve esprimere prestazioni adeguate. All’illusione botanica si è sostituita quella tecnologico-cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione dell’insegnante che deve sempre più rispondere alle esigenze dell’istituzione e non a quella degli allievi, declino dell’ora di lezione” (Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi 2014, p. 88-89).

“La scuola delle competenze specialistiche è una scuola che nega l’erotica dell’insegnamento come fondamento dell’acquisizione del sapere: un insegnamento potrebbe essere tranquillamente sostituito da un computer e il risultato sarebbe lo stesso” (Massimo Recalcati, cit., p. 124).

Il matematico Giorgio Israel, che ha partecipato intensamente al dibattito su conoscenze e competenze, in un suo intervento scriveva riguardo a queste ultime: “A cosa servono questi marchingegni? A battere il nozionismo, si dice. Perché chi si ferma alle conoscenze non è detto che sappia usarle e tantomeno metterle in opera ‘abilmente’ per risolvere problemi e affrontare situazioni. In realtà, sono temi chiari dai tempi di Socrate, senza bisogno di ricorrere a simili esplosioni definitorie. È da sempre nella tradizione della matematica e della fisica – e anche di tante discipline umanistiche come quelle filologiche – la consapevolezza che conoscere concetti non vuol dir niente se non si sa farne uso fino a riuscire a metterli in opera per risolvere problemi complicati” (Giorgio Israel, “La scuola delle competenze demenziali”, il Giornale, 15 novembre 2009).

Israel afferma ancora che “Le ragioni principali che vengono addotte per sostenere l’esigenza di una formazione scolastica ‘per competenze’ sono due: (a) la necessità di mettere in relazione le conoscenze con il loro uso pratico già nel processo di apprendimento e poi nella vita sociale e professionale e di non isolarle a un livello teorico scisso da quello sperimentale; (b) la possibilità di misurare mediante le competenze il ‘valore aggiunto’ ottenuto a scuola, in quanto esse sarebbero misurabili a differenza delle conoscenze. In realtà, la prima motivazione è banale, perché l’esigenza di non scindere la teoria della pratica non è una scoperta della pedagogia moderna ma semplicemente la caratteristica di qualsiasi buon insegnamento, da Socrate in poi. […]. In realtà, anche l’esigenza (b) è inconsistente, in quanto la pretesa di misurare le competenze è destituita di qualsiasi serio fondamento. Ciò non vuol dire che la tematica della didattica per competenze sia priva di motivazioni, che però sono di altra natura. Da un lato, essa mira a conformarsi alle raccomandazioni del Parlamento europeo circa le competenze chiave per l’apprendimento permanente (18 aprile/962/Ce), che hanno come obbiettivo la standardizzazione dei sistemi scolastici europei. D’altro lato, è espressione di un’ideologia costruttivista che da tempo si è fatta largo nel campo dell’istruzione e delle teorie pedagogiche”. […] Chi ha a cuore il futuro di questi sistemi dovrebbe battersi per ricomporre rapidamente l’artificiosa dicotomia tra conoscenze e competenze e difendere una visione della formazione che non si pieghi a esigenze esclusivamente tecnocratiche e di mercato del lavoro” (Giorgio Israel, Dibattito tra Giorgio Israel e Luciano Benadusi, Scuola Democratica, n. 2 della nuova serie, giugno 2011).

(2 – continua)

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