Gli anni di Covid hanno seminato, nel mondo della scuola, tanta paura e tensioni psicosociali che hanno portato a galla nuovi fenomeni di depressione e ansia.

Dopo due anni di “pessimismo vissuto” (al di là degli slogan tipo “andrà tutto bene”) il disagio psichico è aumentato, in particolare tra i giovani, e per questo si parla oggi del “bonus piscologo” e dell’urgenza di attivare risposte efficaci al senso di disorientamento che è diffuso tra i giovani e che provoca spesso nuove forme di isolamento, rigurgiti di violenza irrazionale e di sballi criminogeni.



Ora si tratta di sbloccare la valvola per provocare la fuoruscita del male oscuro e riaprire un orizzonte di rinnovata fiducia nella positività del reale e dell’umano. Questo non significa tornare ad una normalità di vita scolastica ritmata dal rispetto delle regole e alla routine lezioni-interrogazioni ed esami finali come era prima del Covid.



In questo periodo, in cui spesso dirigenti e docenti si son trovati a fare soprattutto gli “ufficiali sanitari” piuttosto che gli educatori, le scuole che meglio hanno mostrato una capacità di resilienza di fronte all’emergenza sono quelle in cui si sono instaurate relazioni significative sul piano professionale tra gli adulti.

La riscoperta del ruolo essenziale della relazione educativa ha portato molti a trovare le energie e il senso di responsabilità per attraversare la miriade di disposizioni amministrative-burocratiche e costruire una rete di relazioni basate sulla comune passione educativa per i ragazzi loro affidati e sulla professionalità dei rapporti.



Queste équipes scolastiche sono state così in grado di incontrare (e in vario modo di supportare) il bisogno e i disagi manifestati dagli alunni e dai loro genitori.

Occorre quindi considerare che ogni ferita è anche una feritoia, ovvero una opportunità per guardare la realtà da un altro punto di vista, culturale e organizzativo, senza farsi ingabbiare dagli schemi individualistici precedenti. D’altra parte se una visione culturale si è fatta sorprendere da questa come dalle crisi precedenti (ricordiamo solo quella terroristica del 2001 e quella economico-finanziaria del 2008) non si capisce perché dovrebbe essere ripresa senza battere ciglio.

Si avanza però oggi anche una pericolosa tendenza alla ideologizzazione delle modalità di fuoruscita di questa drammatica situazione medico-sociale: considerare le tragedie della pandemia come l’ultimo frutto di una concezione antropologica in cui l’uomo, l’io, si concepisce come dominus incontrastato del reale, come centro dell’imperialismo dell’utile, che arriva a non guardare più in faccia a nessuno.

In questo senso il progressivo accentuarsi dell’inquinamento e delle catastrofi ambientali causate dall’uomo sembra confermare questa diagnosi ed il messaggio “apocalittico” è proprio questo: non ci sarà un domani, se non fermiamo immediatamente l’uomo nella sua azione devastatrice.

Certamente l’individualismo nichilista, che è dominante oggi, è uno dei fattori scatenanti delle ultime crisi economico-sociali-ambientali della nostra civiltà, ma il rischio è quello di assolutizzare questa visione antropologica, che è frutto della modernità, trasformandola nella caratteristica strutturale dell’umano.

Secondo questa prospettiva infatti il vero responsabile di tutti i disastri ambientali nei secoli sarebbe l’uomo in quanto tale, con la sua pretesa di essere speciale rispetto agli altri viventi che si integrano senza problemi con la natura.

Insomma l’uomo si trasforma nell’orco delle fiabe, mentre il lupo non è più il cattivo, ma solo un animale incompreso.

Ecco allora che si avanza in modo strisciante anche nel mondo della scuola l’idea che per ripartire sia necessario non rimettere al centro l’io dell’uomo, ma piuttosto spodestarlo! Il virus insomma ci dovrebbe aver fatto capire che dare spazio al soggetto umano coincide con la possibilità di rovinare tutto di nuovo.

In questo senso si capisce perché tanti pensino che sia necessario sviluppare una prospettiva che si potrebbe definire “green gender fluid”, in cui l’uomo deve accettare di considerarsi come una delle tante specie viventi, e impegnarsi ad utilizzare le sue caratteristiche più originali, ovvero la ragione e la libertà di scelta, per organizzare in modo efficiente la società umana in simbiosi con la natura. Da qui scaturisce l’idea di una ricostruzione post-Covid tecnocratica attraverso il driver della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale e la possibilità di un’autorealizzazione secondo una modalità svincolata da ogni relazione o appartenenza “naturale”, perché si pensa che l’unico modo per superare le differenze sia “abolire la differenza”.

Questa apparente visione green della ricostruzione mantiene però come presupposto proprio la concezione dell’individualismo nichilistico radicale che ci ha condotto agli ultimi disastri ambientali e sociali.

Come nota infatti il sociologo Magatti: “Viviamo nell’epoca dell’imperativo all’autorealizzazione, che ci rende insofferenti verso tutto ciò che può interferire con lo spazio sacro della ‘vita autentica’. Ognuno ha il diritto – e la responsabilità – di giocare la propria partita, senza doversi appoggiare ad altri. Individui ‘assoluti’, sciolti dai vincoli della tradizione e dell’autorità, per avverare il nostro progetto contiamo sulle offerte di un sistema capace di raggiungere livelli di efficienza davvero incredibili. È infatti la libera realizzazione di tutti e di ciascuno il criterio di legittimazione dell’organizzazione sociale nella quale viviamo: moltiplicare i mezzi senza predeterminare i fini individuali costituisce il grande mito della contemporaneità”.

La via d’uscita dal disorientamento non è allora quella di un indebolimento dell’io o di una depressione del soggetto. Al contrario: c’è oggi la grande possibilità di capire che il soggetto, l’io, non come categoria astratta, ma come concezione del nostro stare al mondo, è un’altra cosa rispetto all’individualismo.

La pandemia infatti ci ha fatto scoprire che siamo tutti radicalmente fragili, ma anche che il nostro io è strutturalmente fondato sulle relazioni, per cui è dalla consapevolezza di questa comune vulnerabilità e relazionalità che si possono rifondare le basi della convivenza tra gli uomini.

Il problema educativo non sta quindi tanto nel moderare l’individualismo diffuso, quanto nell’impegno responsabile  a riscoprire la scuola come l’istituzione che ha il precipuo scopo dell’introduzione alla realtà globale attraverso la crescita del soggetto umano in tutte le sue più autentiche dimensioni.

È da notare a questo proposito come l’educazione civica, se intessuta di esperienze e compiti di realtà, ovvero come una “via pratica” per la riscoperta dei valori sociali, potrebbe avere un ruolo strategico per ricostruire il tessuto valoriale e le capacità relazionali dei giovani.

Occorre riscoprire il soggetto attraverso percorsi di maturazione culturale dell’io che permettano di far capire che anche sotto la pelle del “predatore” della natura e degli uomini c’è sempre un “innocente desiderante”, vale a dire che l’autocoscienza e la sete infinita di rapporto autentico con la realtà nella sua interezza costituiscono una capacità del soggetto, liberante rispetto a tutte le possibili degenerazioni dell’umano.

La sfida educativa della ricostruzione è impegnarsi a stimolare la libertà del soggetto umano, ovvero l’io in relazione, nel riscoprire il problema del senso della vita e di come il problema del senso sia condizione per affrontare in modo “umano” le nuove modalità di costruzione di una vita sociale solidale e sostenibile.