C’è chi li ha definiti “choosy”, esigenti, ma anche “bamboccioni”. Quanti, in questi ultimi anni, si sono permessi di invitarli ad alzarsi dal divano e di andare a lavorare, cioè a guadagnarsi il pane quotidiano! Come sempre, non sono mai da replicare certe retoriche che fanno di tutta l’erba un fascio. Pensiamo solo, per dirne una, come conferma l’indagine Ipsos della Fondazione Barletta uscita qualche settimana fa, che i giovani italiani oggi sono convinti che la generazione più felice del dopoguerra è stata quella dei loro genitori, perché più fiduciosa su un futuro che oggi è invece carico di nubi. A tal punto che sarebbero disponibili, se il caso, anche a lasciare casa per trasferirsi lontano, pur di incrociare un lavoro soddisfacente.



Si stava meglio quando si stava peggio? Lasciamo la risposta a ciascuno, per i pro e contro.

Se i loro genitori, per andare al sodo, avevano maggiori opportunità di lavoro, prospettive per il futuro, compresa una migliore qualità delle relazioni sociali, a dispetto della mancanza di social e internet, oggi è tutto un po’ più complicato. Si fanno tante indagini su di loro, ma, forse, non bastano per ascoltarli davvero, dialogando senza veli. Perché, troppe volte, sono gli stereotipi quelli che finiscono per emergere.



Del resto, lo sappiamo tutti, vivono in un mondo che è cambiato troppo in fretta. E a forza di inseguire la velocità, mito moderno, si finisce per sacrificare la profondità del vissuto. Difficile, per le generazioni passate, comprendere come è passato il tempo, e come sono cambiate le nostre fasi della vita, e quali siano le cause di fragilità, forme di ansie permanenti, data la quasi scomparsa nelle nuove generazioni di punti fermi valoriali, relazionali, economici. In più, vi è la circostanza che oggi i giovani sono pochi, rispetto ai loro padri e nonni. Quindi con scarso appeal politico, economico, di governo delle nuove complessità.



Conosciamo i dati demografici degli ultimi anni, conosciamo pure quanti hanno deciso di fare i bagagli per andare a cercare fortuna in altri Paesi. E tutti gli altri? Sappiamo di lavori sottopagati, contratti precari, abuso di tirocini. Costruirsi un futuro a tutto tondo, quindi anzitutto affettivo, relazionale ed economico? Complicato per molti. Insomma, il paradigma è cambiato rispetto alle priorità dei loro genitori e nonni: si lavora per vivere, non il contrario. Come è giusto che sia.

Che gli adolescenti di oggi fossero diversi da come solitamente vengono dipinti lo vedevo quando mi capitava, da preside, di chiacchierare con loro. Liberamente, senza filtri. Ieri come oggi. Parlo di un senso di responsabilità che raramente ritroviamo tra le prime pagine dei giornali. Intanto, è giusto ricordare quanti di loro, oltre allo studio, allo sport e alla vita relazionale, coltivano anche un “lavoretto” nei tempi loro concessi dalla frenesia dei tempi. Passando a setaccio alcune ricerche centrate proprio su questi aspetti ne viene fuori un quadro che smentisce, lo ripeto, certi giudizi sommari.

Già alle scuole superiori il 53%, ad esempio, ammette che il lavoro è già entrato nella loro vita. La metà di questi durante tutto l’anno, l’altra metà durante i mesi estivi. Il 10% ha già idee chiare, ad esempio mettendo a frutto la propria passione digitale, anche nella speranza che possa diventare la propria professione futura. Fare cioè della passione una professione. Il massimo. Mito del posto fisso? Solo uno su cinque non lo esclude. Mentre, tra di loro, il 50% vorrebbe un lavoro che renda liberi e autonomi.

In una ricerca realizzata di recente da Skuola.net emerge che è attraverso il cellulare ed i social che riescono a costruirsi una prospettiva. Sono più i maschi, per vecchi pregiudizi, delle ragazze a sentirsi coinvolti, ma la differenza si sta riducendo anno dopo anno, col 61% dei primi ed il 51% delle seconde. Che cosa li spinge? Anzitutto la necessità di rendersi un po’ indipendenti, provando a sperimentare cosa voglia dire essere protagonisti di una propria idea di futuro. Non incide la diversa situazione economica della propria famiglia.

Sono i soliti “lavoretti”, cioè cameriere, rider, babysitter, ripetizioni, e così via, ad essere praticati. A parte quel 10% già ricordato che prova a mettere, da subito, a frutto una certa passione digitale. Una sorta di antipasto di un possibile avvenire professionale. Nelle risposte dichiarano di non cercare punti fermi professionali, ma un mix tra ricerca di competenze e soddisfazione di vita. Questo è un punto delicato, che meriterebbe, nel mondo del lavoro, maggiore considerazione.

Perché tutti conosciamo giovani già inseriti in profili professionali che, nel contempo del lavoro anche a tempo indeterminato, si mettono alla ricerca di posizioni libere in altri contesti, per migliorare la propria qualità della vita, oltre anche gli aspetti stipendiali. La fidelizzazione di un giovane dovrebbe sì incrociare contratti più adeguati, ma in un contesto di riconoscimento del tempo-vita più significativo. Il 23% si vede proiettato, per questo, su un percorso imprenditoriale, magari tutto da costruire. Pensiamo al mondo delle start-up. Dunque, voglia di autonomia coniugata con spirito manageriale. Sapendo che le competenze, poi, non si improvvisano, ma si costruiscono con logica sperimentale e carica innovativa.

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