Scrive Manzoni: “Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.”
L’inizio del decimo capitolo dei Promessi sposi è una perfetta sintesi di quella che è l’età dell’adolescenza. Una disponibilità assoluta. Una attenzione assoluta a tutto ciò che si muove intorno. Una curiosità infinita per ogni ipotesi di vita, buona o cattiva, legale o illegale.
Non sembra che sia così. Pare quasi il contrario: i nostri ragazzi stanno tutto il giorno davanti agli schermi degli smartphone o sdraiati (come ha scritto Michele Serra) sui loro divani di niente. Sono apatici e immobili.
Ciò non avviene perché non hanno interesse. Non vivono così perché non desiderano. Vivono così perché desiderano tutto, per tutta la vita. Non è che non abbiano sogni. Hanno sogni radicali. Allora perché se ne stanno così, come mummie sui banchi di scuola, come amebe nelle camerette delle loro abitazioni, come esseri struscianti lungo le vie delle nostre città? Perché quello che vedono sono proposte piccole. Mediocri.
La scuola è un insieme di regole e normative, di nozioni e valutazioni, di prove da eseguire per essere giudicati. Nella maggioranza dei nostri istituti scolastici, l’intero inizio dell’anno scolastico è dedicato alla compilazione e alla spiegazione dei diritti e dei doveri, delle norme di comportamento, di quello che si può o non si può fare, delle punizioni a cui si va incontro se si infrangono le regole. I primi giorni di scuola sono caratterizzati dai test d’ingresso, prove che ti inchiodano da subito al tuo livello di intelligenza e ti schedano attraverso quiz e crocette. Non esiste nessuna proposta. Non c’è dialogo. In una scuola che ho visitato, addirittura, si vieta ai docenti di “avere comportamenti amicali con gli alunni (chiacchierare in confidenza, farsi accompagnare in automobile…)”. Anzi, chi in classe propone un senso di vita viene accusato di plagiare i ragazzi.
Anche le famiglie spesso guardano i propri ragazzi con immagini già preconfezionate: il 60% dei miei alunni arriva in prima superiore con un indirizzo di studi scelto dai genitori: “Io amo disegnare, ma mio padre ha voluto farmi fare il liceo”; “Mi piacerebbe mettere su una attività di ristorazione, ma i miei mi hanno iscritto al liceo perché l’alberghiero, dicono, è una scuola poco seria”.
E poi le domande che facciamo ai nostri figli: “Hai già la fidanzata?”, “Quanto hai preso in matematica? E i tuoi amici quanto hanno preso, più o meno di te?”. Tutta la nostra preoccupazione va al fatto che i ragazzi siano più o meno al livello di un comune comportamento borghese. Che sta stretto anche a noi adulti, certamente. Ma a cui noi adulti siamo spesso abituati e rassegnati.
Tra gli amici? Anche lì le mode, il giudizio del gruppo, la paura di stare soli impediscono spesso che un giovane possa trovare qualcosa di vero, che lo riempia completamente.
E quindi? Quindi i ragazzi sono lì, davanti a noi, ad attendere – spesso invano – di vedere uno che prenda sul serio tutta quella voglia di infinito, tutto quel desiderio di darsi a un grande ideale, tutta quella smania di vita che sentono dentro.
A volte, alcuni si approfittano di questa esigenza di appartenenza radicale che pulsa nei loro cuori, per portarli su strade sbagliate, di distruzione. Altre, loro stessi si procurano il male, si comportano da autolesionisti, per vivere almeno così in un “metaverso” di emozione e intensità (pur se nel dolore) che, almeno per un certo tempo, li faccia sentire sofferenti, ma vivi, al centro del mondo, quasi amati.
Non deludiamo il grido, la domanda che viene dagli occhi dei nostri studenti. Lasciamoci travolgere da questa voglia di tutto, da questa richiesta di un senso radicale e totalizzante che sposti prima di tutto noi insegnanti dal tran tran quotidiano, dall’aver abbassato la guardia per una sopravvenuta stanchezza di combattere.
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