Il Romanticismo mi appassiona da sempre, anche perché si colloca in un contesto storico per niente “romantico”. Fu infatti un’epoca di straordinario sviluppo tecnologico e scientifico, e mentre i campi d’Europa si tingevano del rosso del sangue della migliore gioventù del continente, le sue città, illuminate dai primi lampioni a gas, iniziavano ad imbrattarsi del nero fumo delle ciminiere della rivoluzione industriale.
A pochi anni di distanza dalla celebre passeggiata del poeta William Wordsworth nella splendida natura del Lake District, sulle rive di un altro lago, quello di Ginevra, una giovanissima Mary Shelley intesseva dialoghi con i più grandi poeti del suo tempo riguardo alle prospettive aperte sul futuro dell’umanità dagli esperimenti di Galvani, che, con la corrente elettrica, sembrava riuscire a rianimare gli arti privi di vita delle rane.
Da quei dialoghi e dalla sfida lanciata ai presenti da parte di Lord Byron di ideare un racconto del terrore, nasceva il capolavoro di Shelley: Frankenstein. “Mary aveva la vostra età” esclamo rivolto ai miei alunni dell’ultimo anno di liceo per invitarli a desiderare di compiere grandi cose.
La hybris prometeica di impadronirsi della scintilla della vita; la tentazione dello scienziato di sostituirsi a Dio per costruirsi una creatura a “propria immagine e somiglianza”; la questione di un limite etico da porre a tale potere, costituiscono il classico contesto di una lezione sul tema. Tutto abbastanza attuale, abbastanza interessante e, tutto sommato, abbastanza scontato negli esiti di un dialogo sui pro e contra. “Certo – affermo – i tentativi dell’uomo di generare la vita si scontrano contro un limite invalicabile. Egli può solo limitarsi a manipolare il materiale che già si trova tra le mani, non crea mai le cose dal nulla”.
È a questo punto che, alla destra della cattedra, accade qualcosa di inaspettato. Oggi l’imprevisto ha gli occhi scuri incorniciati dai riccioli neri di Serena. Il suo volto si è illuminato. “Prof – mi interrompe – ha visto il video su TikTok in cui si vede l’ovulo fecondato dallo spermatozoo?”
A parte il fatto che non dispongo di questa applicazione, l’intrusione di uno spermatozoo nella lezione mi destabilizza non poco. “Non capisco Serena. Che vuoi dire?”
Le parole della mia alunna non riescono a spiegare, però comunicano uno stupore che non si riesce a dire. Corro il rischio: “Vediamo di che si tratta”.
Sullo schermo, immerso in uno sfondo nero simile a un’ecografia, si distingue a stento quello che sembra il profilo di un ovulo. Dopo alcuni secondi, come incendiati da una scintilla, i contorni si illuminano e sfolgorano come un fuoco d’artificio che illumina quell’universo buio per un’istante, irrevocabilmente, per poi riprendere l’aspetto di prima.
“Sì prof – commenta laconicamente Andrea che aspira a iscriversi a medicina –. C’è chi dice che è l’anima che entra nell’ovulo, ma è solo una reazione chimica causata dallo zinco che viene a contatto con l’ovulo per fecondarlo”.
Temo che l’ideologia prevalga immediatamente sullo stupore. Quello stupore che sento innanzitutto in me e che è lo stesso che ho percepito in Serena.
“Se si tratti dell’anima, io non lo so. Dalle immagini non si vede, ma anche dire che si tratta ‘solo’ di una reazione chimica mi sembra riduttivo. Se fosse solo questo lo sapremmo replicare. E invece dove un attimo prima non c’era nulla, adesso c’è una vita. Una cosa del tutto nuova batte dentro l’universo. Passa attraverso di noi, ma ci supera smisuratamente; tanto è vero che non ne siamo consapevoli”. Bisogna avere la semplicità di Serena, che non sa cosa dire ma che non smette di stupirsi. Rivediamo le immagini.
“Ecco – dico ai miei alunni – per ciascuno di noi tutto è iniziato così: una scintilla nel buio”. Batto la mano sul tavolo: “ta-ta-ta-ta” … “ta-ta-ta-ta”. Per spiegarmi intono le celebri note iniziali della Quinta di Beethoven. “Ciascuno di noi entra nella storia del mondo così, come un fuoco d’artificio, come l’inizio di una magnifica sinfonia”.
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