Dopo parecchio tempo rivedo il mio amico Giuseppe. A debita distanza, come si usa tra gente anziana e responsabile, seduti nelle poltroncine consumate sotto il portico di casa sua ci raccontiamo l’estate. Apprezzamenti per il Meeting che è stato, soprattutto per quegli incontri schietti e così poco formali tra De Haro e Azurmendi, o tra Borgna e Galimberti e il buon Esposito ad arrampicarsi tra i due. E magari ci pensiamo un po’ come loro, qui, adesso sotto il caldo che ci inchioda ai cuscini, a dire le nostre speranze e le nostre certezze.
Ma Giuseppe è particolarmente vivace, entusiasta di una cosa che mi snocciola senza pause, tanto infervorato che comincio a credere che stia anche farneticando. Del resto dopo il lockdown, dopo le lezioni a distanza, dopo il tormento afoso della pianura da cui non si è staccato – perché a una certa età non ci si pensa nemmeno di andare in Costa Azzurra o a Riccione a farsi un cocktail al giorno – qualche segno di squilibrio potrebbe benissimo farsi avanti. Lui imperterrito racconta. Sarà mica un sogno? gli chiedo. No: lui mi assicura che tutto quello che sta dicendo succede davvero. A una sua amica, collega insegnante in un paese vicino – mica l’Italia, ma qui, nel verde d’Europa – che ha già cominciato la scuola.
Dunque in questa scuola accade così: primo giorno riunione con tutti i docenti e i dirigenti. Il direttore li accompagna tutti nel verde del bosco che circonda gli edifici scolastici, dove sono state tirate su una serie di nuove aule per fare fronte alle emergenze della pandemia. Informa anche che in tutte le aule esistenti sono stati realizzati impianti per la connessione totale degli ambienti in modo che le lezioni degli insegnanti possano essere, in diretta o registrate, viste e partecipate dagli alunni che dovessero trovarsi in quarantena. Conferma poi: niente banchi a rotelle, ma termoscanner a ogni ingresso per la sicurezza di tutti.
Ma queste sono quisquilie. Giuseppe racconta di come la sua collega gli ha raccontato il seguito della giornata. Il direttore, dopo che tutti hanno preso posto seduti nelle poltroncine situate sul verde tappeto del parco, ha fatto entrare due auto dal cancello di ingresso. Insieme agli autisti sono scese cinque donne e tre uomini; sono i nuovi insegnanti che la scuola ha assunto – proprio durante questi mesi di chiusura forzata – a seguito di una selezione accurata. Ciascuno di loro scende con una piccola valigia, ne estrae un oggetto. Uno di loro si presenta, spiega perché ha quel lucchetto in valigia, che cosa vuol dire. Spiega che l’ha scelto perché finalmente è potuto arrivare alla scuola dove da tempo voleva arrivare, liberandosi da una serie di cose che lo tenevano legato in altre questioni. Un’altra delle nuove insegnanti tira fuori dalla valigia una conchiglia, una cosa fatta di terra e di minerali, come noi. Come me – dice – ma con dentro una musica segreta, come me e come voi, come i ragazzi che crescono in questa scuola. Grandi applausi, convinti. Poi il direttore, come un mago consumato, fa apparire un’infinita schiera di musicisti che consegnano a ciascuno dei presenti – 150 in presenza, mica 2 o 3 – enormi tamburi e bastoni. E guidano tutti a comporre una specie di ritmo personale, poi una canzone comune. Team building, la chiamano lì. Ma anche in Italia. Ma lì la fanno, qui in Italia ne parlano, dice Giuseppe. Ciascuno capisce così che la sua voce è fondamentale, ma che in quella scuola è grazie a ciascuna di quelle voci e al loro coro insieme che le cose si fanno.
E il direttore tira fuori argomenti di una programmazione che declina sotto le querce del parco, tra le aule nuove e i nuovi colleghi, mentre dietro di loro, nella cucina allestita per l’occasione, si sta approntando il pranzo per tutti. Anche quello diventerà un passaggio di questa pazzesca giornata d’inizio: uno show cooking in cui ciascuno chiacchiera, mangia e conosce anche i nuovi.
Prima c’è tempo ancora per una lezione di yoga, a cui tutti partecipano sdraiati sui loro tappetini sanificati. E poi di nuovo il direttore. Ci sta anche di fare un po’ di bilancio, prima del pranzo con tutti quei Cracco che aspettano dietro il bancone. Ma lui non dice parole, non si fa domande retoriche del tipo: cosa abbiamo imparato? Salta via le premesse e ricorda soltanto che, come aveva già detto parlando del programma educativo, e come recitano tutte le carte intestate della scuola, è l’amore che vince ogni cosa. E racconta e presenta: la professoressa Bianchi – ve la ricordate con il suo pancione a dicembre? – Bene, è nato Matteo. E poi il professor Rossi: proprio durante il lockdown è riuscito a terminare il libro che stava scrivendo e nei prossimi giorni avremo la possibilità di ascoltarne una presentazione. E poi ecco qui: il nuovo annuario della scuola, con le foto delle classi, con i nomi di tutti. E, dice ancora, abbiamo un grande saluto da fare al nostro collega che termina per ragioni di età il suo lavoro nella nostra comunità. Certo, anche da noi, ricorda, ci sono state tragedie. E ci stringiamo intorno alla prof. Verdi che ha visto la mamma portata via dal virus.
Comunità, capisci? mi dice Giuseppe. Niente di più e niente di meno della vita. Ecco quello che gira in questa scuola, mi dice Giuseppe, tirando solo adesso il fiato. E non è mica finita qua. Dopo un pomeriggio in cui i responsabili dei vari dipartimenti hanno fatto il punto della situazione, consegnando a ciascun insegnante il proprio Mac e tutte le istruzioni per l’uso, c’è stato ancora il tempo di un aperitivo. Ora Giuseppe è stremato. Mica perché fa caldo e ha parlato mezz’ora di fila. Ma perché pensa che quando tra un po’ andrà in pensione, lui e molti altri, non ci sarà nemmeno un vicepreside a dire due parole: forse qualche triste patatina rovesciata su tovaglioli di carta su una cattedra dal sapore di alcol. Stremato perché quando arriveranno i nuovi, nessuno dirà loro nemmeno buongiorno. Tutti saranno occupati a cercare spazi, mascherine, gel sanificanti. A stabilire procedure e inventare protocolli. A pararsi un po’ il culo, per dirla in modo schietto e sincero. Nessuno saprà perché è lì. Nemmeno uno slogan buono da ricordarsi una volta in pensione.
Non è che Giuseppe ha sognato. Non farnetica il mio amico, non ha scambiato la vita col sogno.
Tutto quello che mi ha raccontato succede davvero non lontano da noi. In una scuola che proprio perché non si pensa come una macchina, funziona che è una meraviglia. Lo giuro e lo confermo: la sua collega esiste, quella scuola esiste. E chi glielo dice ai nostri alunni? Chi glielo dice al ministro? Ai presidi, agli insegnanti, ai collaboratori scolastici? Chi glielo dice ai giornali che, dopo i numeri dei contagi, sanno solo dare i numeri di banchi e sedie, che la scuola è una vita che si prende sul serio, che si prende davvero cura di sé?
Io e Giuseppe ci alziamo e ci salutiamo e ci viene voglia di abbracciarci, nemmeno fossimo in Costa Smeralda. Per la meraviglia, certo. Ma anche un po’ per la malinconia che ci prende.