Una scoperta inattesa per me, ma suppongo ben nota a molti amici insegnanti. Con l’inizio dell’anno scolastico, ho deciso di accettare l’invito a collaborare con un doposcuola della mia città, Torino, frequentato da molti bambini di scuola media e da alcuni ragazzi di scuola superiore. La mia materia è la matematica, faccio i compiti con alcuni di loro seguendoli personalmente e cerco di indagare sulle loro lacune, per aiutarli a recuperare.
Ho scoperto una situazione generale che non mi aspettavo: moltissimi non sanno eseguire le operazioni, non hanno la vecchia tavola pitagorica che ai miei tempi era stampata in fondo ai quaderni e mi soccorreva nel fare i calcoli, ma con il consenso dell’insegnante ricorrono costantemente alla calcolatrice, che tutti hanno sul telefono.
Come mai questa innovazione? Nessuno sa ricorrere al calcolo mentale o abbreviato, per esempio a nessuno viene in mente che 8*9 si possa calcolare come 8*10 – 8, cioè 80 – 8 = 72. Il pensiero torna velocemente alla mia gioventù. Chi ero io quando andavo a scuola? Una ragazzina dotata di senso del dovere, abbastanza rapida nello studio, ma maldestra nei calcoli per distrazione. Questo non mi ha impedito di laurearmi in matematica col massimo dei voti, perché i calcoli sono solo una piccola parte del sapere matematico e non consistono solo nel fare le operazioni in colonna.
Nella scuola elementare e media si fanno molti problemi e la questione di fondo, la prima da affrontare, è decidere quali operazioni bisogna scegliere di fare per giungere alla soluzione. Una volta scoperto questo, è possibile aiutarsi con una buona intuizione o con piccoli strumenti che aiutano il calcolo.
Si può usare carta e immaginazione per facilitare le operazioni! Per esempio 8*7 è uguale alla somma di 8*5 e di 8*2, il primo addendo, 8*5, è uguale a 8*10 diviso 2, cioè 40; il secondo si può ottenere scomponendo: (5+3) *2 = 5*2 + 3*2 = 10 + 6 = 16, oppure si può ottenere con una somma, aiutandosi magari con un disegno: 8*2 = 8 + 8 = 16. Resta dunque solo da eseguire una somma: 40 + 16 = 56; 8*7 = 56.
Questi brevissimi calcoli, e tanti analoghi, sono basati sul significato delle operazioni e sulle loro proprietà, che non hanno come strumento la pura memoria, ma si ricavano ragionando, a partire da una chiara definizione di ciascuna operazione e dalla conoscenza del suo significato e che in caso di difficoltà di memoria si possono eseguire aiutandosi con materiale concreto o con disegni.
La difficoltà nei calcoli è ben più diffusa della vera discalculia, che non è una difficoltà ma un disturbo. Difficoltà e disturbo sono termini spesso utilizzati indistintamente, ma ciascuno di essi si riferisce a situazioni diverse. Dice Daniela Lucangeli, specialista nell’argomento (D. Lucangeli, Discalculia evolutiva sì – Discalculia evolutiva no?! Contributo della ricerca cognitiva):
“quando si parla di difficoltà di apprendimento, si fa riferimento a qualsiasi difficoltà che uno studente incontra durante il suo percorso di studi. Di qualsiasi difficoltà si tratti, ciò che è importante è l’evoluzione positiva che caratterizza tali situazioni e che può essere ottenuta con un’applicazione maggiore allo studio o seguendo percorsi di insegnamento individualizzati”.
Prosegue poi la Lucangeli:
“Assai differenti sono invece tutte quelle situazioni che rientrano nella categoria dei disturbi evolutivi specifici dell’apprendimento e che fanno riferimento a problematiche più gravi e dall’evoluzione incerta. Essi infatti non sono conseguenza di un handicap, né sono imputabili a fattori esterni, quali differenze culturali, insegnamento inappropriato o insufficiente, ma dipendono dalle basi neuropsicologiche dell’apprendimento stesso”.
Si può concludere che i termini “difficoltà” e “disturbo” vanno usati in maniera corretta, in modo da non attribuire etichette pesanti ed errate a bambini che con un piccolo aiuto possono recuperare le loro difficoltà, o per non sottovalutare situazioni che richiedono un intervento specifico e qualificato. Occorre chiarire che l’intelligenza numerica non consiste nell’addestramento alla prestazione scritta, ma evolve soprattutto nel calcolo a mente ed ha poco a che fare con gli algoritmi procedurali necessari al calcolo scritto.
Nessun test basta da solo per la diagnosi clinica di discalculia. L’indice principale necessario a distinguere un disturbo da una difficoltà di calcolo può essere identificato con la “resistenza al trattamento”. Purtroppo accade troppo frequentemente che si diagnostichino bambini come discalculici prima che si sia fatto un tentativo di approfondimento del profilo e prima di verificare l’efficacia di un intervento di potenziamento mirato. La sola valutazione clinica non esclude di incappare in un falso positivo, cioè di diagnosticare una discalculia quando si tratta solo di una difficoltà, che può essere recuperata con un adeguato potenziamento.
Ancora una nota interessante riportata dalla Lucangeli nell’articolo citato: “Oggi in Italia a scuola vengono segnalati 5 bambini per classe (di 25 alunni circa) con difficoltà di calcolo (20%) mentre la discalculia evolutiva riguarda lo 0,5% della popolazione”.
Anche se il campo di studio della discalculia, come tutti i casi di disturbo, è ampiamente legato al mondo degli psicologi, alcuni matematici se ne stanno interessando. Rosetta Zan afferma in un recente articolo (Errori e lentezza):
“Nessuno nasce con la paura della matematica: la costruisce con l’esperienza scolastica. Il disagio che molti bambini vivono con la matematica già a livello di scuola primaria è legato a un’esperienza con questa disciplina in cui errore e lentezza sono considerati indicatori di fallimento, e quindi vanno assolutamente evitati. Ma non c’è bisogno di tempo per riflettere? E di fronte a un problema, cioè a una situazione nuova che non sappiamo a priori come risolvere, non è naturale fare errori, provare una strada e poi renderci conto che non funziona, e tornare indietro e cercare una nuova strada?”
Cosa sta succedendo? Il fatto che errore e lentezza siano visti come indicatori di fallimento discende da una visione distorta che non dà sufficiente spazio ai processi tipici della matematica.
Queste scelte corrispondono ad un limite nella valutazione, intesa in senso riduttivo, fatta di verifiche da concludere in poco tempo, magari con la pretesa che siano oggettive e con la convinzione di aiutare l’allievo diminuendo la complessità delle richieste, che è un modo rinunciatario di concepire l’aiuto.
Anna Baccaglini-Frank si dice convinta che si possano promuovere processi di pensiero matematici ed una corretta visone della matematica senza paure o angosce, stimolando passione, curiosità, creatività. Dice in un suo articolo, “Le tabelline”:
“L’immagazzinamento (dei dati nella memoria) può avvenire in diversi modi e fa differenza il modo in cui avviene. È più facile ricostruire un fatto aritmetico, se la memoria viene meno, se il fatto è stato immagazzinato mediante un processo con significato” (nota: “Si chiamano fatti aritmetici quei risultati che non richiedono l’applicazione di un esplicito algoritmo di calcolo, ma che possono essere richiamati direttamente dalla memoria, senza incertezze e in modo quasi automatico. I fatti aritmetici più importanti sono le somme entro la prima decina, i complementi a 10, le tabelline”, dal sito Handitecno di Indire).
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Lucangeli D., “Discalculia evolutiva sì-Discalculia evolutiva no?! Contributo della ricerca cognitiva”, Annali della Pubblica Istruzione, 2010
Zan R., “Errori e lentezza”, dall’archivio di Maddmaths! didattica
Baccaglini-Frank, “Tabelline”, idem