Chi ha partecipato come docente a una commissione di maturità quest’anno si è trovato nella necessità di dover dare attuazione alla parte più innovativa della riforma dell’esame, quella riguardante il colloquio orale. Gravi le incombenze: decidere il contenuto delle “buste” con cui avviare il colloquio e accordarsi sulle modalità di valutazione della prova, interpretando, quasi sulla lama di un rasoio, le indicazioni nazionali.



Nella mia commissione – tecnico informatico – la maggior parte delle buste conteneva stringhe di codici, mappe di reti internet, schermate di siti, e qualche sparuto articolo in cui storia e tecnologia trovavano punti di convergenza. Difficile per il candidato collegare questi argomenti con la poetica montaliana del correlativo oggettivo, piuttosto che con l’impersonalità del narratore verista.



Sotto esame, da questo punto di vista, si è sentito più il commissario di italiano (io) che i diversi candidati: ogni volta che si apriva una busta erano sudori freddi (per carità, una benedizione con questo caldo) a trovare un suggerimento per un collegamento non folle con l’argomento sorteggiato nel caso il candidato non avesse improvvise illuminazioni. (Così in un momento quasi onirico di un colloquio, ascoltando l’esposizione di un candidato molto preparato sull’informatica, si è insinuato nella mia mente, come un’apparizione mistica, un “collegamento” assurdo: l’URL di Münch – e la mia stessa mente ha reagito con l’espressione del quadro a questo pensiero folle che il caldo aveva sospinto fino alle soglie della mia coscienza).



E così solo nei casi più brillanti o più fortunati i candidati hanno saputo gestire un colloquio di qualità: per il resto il rischio era di ascoltare a ripetizione gli stessi preconfezionati collegamenti. (Quello più ascoltato: crittografia-macchina di Turing-Seconda guerra mondiale; e quello che mi ha più sorpreso, rigidità dei protocolli informatici – rigidità dei sistemi totalitari).

L’aspetto certamente positivo di questa impostazione del colloquio è stato proprio il tono generale di ascolto: una discussione, non un’interrogazione. Chi ha letto le indicazioni nazionali ovviamente sa che anche nella sua precedente formulazione la prova orale non avrebbe dovuto essere una interrogazione progressiva in tutte le discipline, ma un colloquio il più possibile interdisciplinare. Ma, e anche questo è noto, nella maggior parte dei casi ogni commissario interrogava sulla propria disciplina.

Quest’anno, almeno per quello che ho visto e sentito, le commissioni sembrano aver meglio recepito la non-obbligatorietà di domande disciplinari e la necessità di valutare il discorso complessivo del candidato, tutt’al più suggerendo (coi sudori freddi prima accennati) qualche aggancio in caso di silenzi improvvisi.

Il principale “contro” è però insito proprio in questo aspetto positivo: abbassando il tono del colloquio, il rischio è che le riflessioni dei candidati si svolgano sempre più sulla superficie dell’oceano della cultura e che i commissari, rassicurati dalla normativa, si dimostrino appagati nel vedere i propri alunni surfare in equilibrio precario tra un’onda e l’altra dei luoghi comuni, piuttosto che osservarli immergere – o naufragare – nella profondità delle discipline, cosa che la vecchia “tesina” poteva, almeno in teoria, permettere.

Sembrerebbe quasi che questa nuova forma del colloquio abbia “autorizzato” la profezia formulata, nell’ormai lontanissimo 2006, da Alessandro Baricco, quando, nel suo I barbari. Saggio sulla mutazione, individuava proprio in questa riduzione alla dimensione orizzontale della conoscenza la conseguenza più grave dell’informatizzazione della cultura.

Quale può essere, allora, la sfida da raccogliere per chi l’anno prossimo dovrà ripensare le proprie programmazioni in vista di questo colloquio?
Io credo che occorra non tanto (come ho sentito) ripensare i diversi contenuti delle programmazioni, in modo da favorire possibili collegamenti, quanto cogliere questa occasione per ripensare e riappropriarsi dello statuto disciplinare dell’insegnamento.

Se le singole discipline sono considerate come finestre diverse sul mondo, visuali che illuminano – attraverso i loro metodi e linguaggi – aspetti dell’unica realtà, allora non sarà un’operazione da equilibrista o da illusionista costruire percorsi organici a partire dai materiali contenuti nelle buste. E sarà più facile suscitare l’interesse degli studenti nel corso delle lezioni svolte durante l’anno, perché si potrà rimettere al centro la sorgente dell’interesse e l’oggetto delle discipline: la realtà, che come diceva Pontiggia è tanto semplice quanto misteriosa. Quanti docenti continuano a interrogarsi su questo vitale nesso?

Se invece le discipline continuano a essere considerate solo dei vecchi contenitori di sapere, delle fette indipendenti di realtà di cui ciascun docente è specialista, l’unica forma di colloquio possibile sarà quella tanto temuta dallo studente quanto orgogliosamente difesa da certi colleghi: non l’interrogazione ma l’interrogatorio. E se questo statuto disciplinare dell’insegnamento viene dimenticato, o sostituito da una esaltazione euforica delle competenze, finiremo per accontentarci di più o meno brillanti surfers della cultura, o, come li ha chiamati l’amico Valerio Capasa, venditori di materassi.