Nella sua intervista al Corriere della Sera di venerdì, il neo-ministro dell’Istruzione enuncia una serie di buone intenzioni: vaccinare rapidamente tutto il personale, recuperare il tempo perduto con un prolungamento del calendario, far partire l’anno scolastico ai primi di settembre con tutti i docenti in cattedra. E, più in prospettiva, la riforma dell’istruzione tecnica e il recupero nei risultati scolastici delle regioni meridionali.



L’intervista si apre con qualche anticipazione sulla maturità. Già il termine “anticipazione”, quando mancano meno di quattro mesi all’inizio, suona un po’ surreale. Ad ogni modo, non è certo colpa del prof. Bianchi, che ha ereditato solo oggi una situazione stagnante. Quale che sia il modello che egli ha in mente, si vorrebbe sperare sia evitato il bis dello scorso anno, con l’ammissione automatica di tutti e un esame orale poco più che autobiografico per i candidati. Se si genera l’aspettativa che agli esami si sarà comunque ammessi e che in quella sede basterà raccontarsi un po’, inutile sperare che – in presenza o a distanza – i ragazzi prendano sul serio quello che il ministero si affanna a screditare. E quindi, se c’è da rivedere, con un ragionevole ribasso, le aspettative per tener conto delle circostanze, si faccia: ma, una volta fissato il nuovo livello, che sia una soglia effettiva e credibile.



Anche l’anno scorso, per dire, era il consiglio di classe a decidere sull’ammissione: solo che un codicillo prevedeva che si potesse negarla solo in assenza di qualunque elemento di valutazione in tutto l’anno. Bastava un solo voto, anche scadente, in una sola materia, per essere ammessi. Se è questo il modello che si ha in mente, meglio lasciar perdere.

Sulle vaccinazioni e su molte altre delle questioni che il ministro ha evocato, sulla falsariga del suo presidente del Consiglio, si può concordare: purché si ricordi che le buone intenzioni, da sole, non hanno mai risolto i problemi. Per esempio: le vaccinazioni dipendono dalle Regioni e non da viale Trastevere; e le Regioni, a loro volta, non possono somministrare i vaccini se la struttura nazionale non riesce ad approvvigionarsene. E quindi fissarsi un obiettivo certamente condivisibile, ma che non dipende neppure marginalmente dal ministro, non è una buona mossa di apertura.



Aprire le scuole a settembre con tutti i docenti in cattedra: se ne parla, a vuoto, da almeno sessant’anni. La soluzione non risiede, se non marginalmente, nella digitalizzazione della pubblica amministrazione (ancora un fattore che sfugge al diretto controllo del ministro). Risiede nel cambio delle regole di gestione del personale. Se ogni anno un quinto dei circa 800mila docenti cambia sede; se i precari, da nominare ogni volta ex novo ed a cui spetta illimitato diritto di scelta del posto, previa convocazione individuale, sono 140mila; se tutti questi movimenti devono essere gestiti dal centro e per giunta sotto il controllo stringente del sindacato: di che stiamo parlando?

Eppure basterebbe una modifica relativamente semplice, se ve ne fosse la volontà politica: conferire alle singole scuole il compito di nominare, sempre dalle graduatorie, ma ciascuna per i posti che ha vacanti. E che quelle nomine, una volta conferite e accettate, siano blindate per tutto l’anno. Ci vuole una legge? sì, certo: ma sarebbe benedetta. E, quella sì, nella disponibilità di un ministro che la voglia fermamente, con la maggioranza parlamentare di cui dispone.

Recuperare il divario di rendimento delle scuole meridionali non è certo un obiettivo nuovo: ma, per realizzarlo, occorre poter agire sulle cause del problema. Cause che sono solo in parte interne al sistema scolastico: ma, anche quelle che lo sono, vengono spesso gestite con insufficiente coerenza. Noi oggi sappiamo che in Calabria o in Campania ci sono certi risultati solo perché si è cominciato a misurare i dati quantitativi: eppure l’Invalsi, che ha prodotto quelle indagini, è continuamente messo in discussione, senza che da viale Trastevere vengano parole di sostegno. Anzi, negli ultimi tempi del precedente ministro, si parlava di sospendere le rilevazioni: speriamo che il prof. Bianchi ci ripensi.

Come speriamo che resista alla tentazione di indirizzare a pioggia sulle scuole del Sud un po’ di risorse, magari del Recovery Fund, come se le risorse producessero da sole risultati. Il ministro è un valente economista e sa bene che, a fare la differenza, è il modo in cui le risorse vengono utilizzate e non solo la loro misura. Vogliamo dire una cosa antipatica? Dal 2007 le scuole del Sud hanno fruito di ingenti risorse aggiuntive europee, attraverso i Pon: si parla di diverse centinaia di migliaia di euro per ogni scuola, in media e in totale. Eppure, la dispersione in quei territori è più del doppio di quella media nazionale e cinque volte superiore a quella del Trentino.

Però, se si guarda alle valutazioni espresse dalle scuole al proprio interno con gli scrutini e gli esami, le scuole del Sud danno i voti migliori. Se si guarda alle percentuali di abbandoni o alle prove standardizzate, la situazione si ribalta. C’è – con ogni evidenza – qualcosa da rivedere nel meccanismo della valutazione interna. E qui sì che c’è lavoro per un ministro che voglia fare.

Eppure, viale Trastevere sembra essersi mosso in direzione opposta: oltre ad indebolire l’Invalsi, ha varato da poco l’ennesima controriforma della valutazione nella scuola primaria, reintroducendo i giudizi al posto dei voti. E stendiamo un velo pietoso sulle Linee guida emanate, giustamente messe alla berlina oggi (ieri, ndr) da un articolo di Galli della Loggia, sempre sul Corriere. Possibile che non si riesca a capire che un conto è la valutazione interna, formativa, ad uso degli stessi insegnanti, che serve a diagnosticare problemi e a individuare strategie; un altro è la valutazione verso la società civile, verso le famiglie, che deve misurare e rendere conto? I giudizi vanno bene per la prima, ma non per la seconda. Eppure, si continua a fare d’ogni erba un fascio e a confondere le carte in tavola, con il risultato che le carenze non sono più diagnosticate, diventano invisibili e si incancreniscono.

Tutte queste cose il prof. Bianchi, da economista qual è, le conosce certamente. Vorremmo allora sperare che agisca in conseguenza: anziché formulare intenzioni politicamente corrette, ma le cui condizioni attuative risiedono fuori della sua portata, si concentri su quel che dipende dal suo dicastero: da una gestione efficiente del personale alla valutazione e agli esami, che devono tornare ad essere strumenti di misura chiari ed a restituire l’immagine della realtà e non della sua interpretazione ad usum Delphini.

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