Sulla routine di fine anno fatta di interrogazioni, verifiche e programmi da finire è arrivata la tempesta perfetta dell’alluvione che ha fatto saltare qualsiasi piano di docenti e studenti, chiudendo la scuola per più di una settimana. Nelle chat di docenti è cominciata l’ansia su come poter sfruttare i pochi giorni rimasti per recuperare quello che si era pianificato, forse senza tenere conto di quello che era veramente accaduto; non parlo soltanto delle morti, dei danni materiali e psicologici che questo evento straordinario ha portato nei nostri territori, ma parlo anche della marea di ragazzi delle scuole medie e superiori che hanno invaso le nostre strade per poter aiutare le famiglie alluvionate.



In uno dei quartieri alluvionati della mia città, Cesena, quello della parrocchia di San Rocco, lungo il fiume Savio, da giovedì scorso sono stati centinaia i ragazzi che hanno fatto “a gara” per poter aiutare le persone in difficoltà e nei primi giorni dell’alluvione è stata creata dai ragazzi una chat, a cui hanno aderito più di mille studenti, che si chiama “Gruppo aiuto studenti Cesena” in cui si raccontano con audio, video e foto e segnalano necessità rispetto a quello che sta accadendo. I ragazzi stanchi, post-Covid, pieni di disagi che “non riescono più a studiare”, sono scesi in strada ad aiutare gli altri prima di protezione civile, vigili del fuoco e altre organizzazioni pubbliche. Cosa è successo? Forse, all’apertura delle scuole, dovremmo ripartire da qui.



Domenica un mio alunno di prima superiore è venuto, insieme ad altri 150 volontari, a sgombrare un parcheggio interrato di 40 garage, ha corso tutta la mattina come un matto per la rampa del garage a portare armadi, biciclette e auto, è tornato a casa il pomeriggio totalmente pieno di fango e alla fine mi ha ringraziato dicendo “oggi è stato bello”. Aveva semplicemente risposto a una mia storia Instagram, in cui invitavo i ragazzi a segnalarmi una loro disponibilità ad aiutare.

In una classe rientrata perché in un comune non in emergenza, i ragazzi erano molto preoccupati e mi spiegavano tutto il loro desiderio di poter andare ad aiutare i compagni e gli amici in difficoltà e invece si sentivano costretti a studiare per verifiche o interrogazioni di materie in cui avevano già 5 o 6 voti nel quadrimestre. Non ne capivano il senso e sinceramente non lo capisco più neanche io, che senso abbia continuare a fare scuola in un modo così distaccato dalla realtà che viviamo.



Quante volte noi adulti abbiamo fatto battute su questi ragazzi, “hanno una vita facile”, “sono viziati”, “non vogliono fare fatica”. Eppure mi hanno, ci hanno stupito ancora, con il loro desiderio di tornare protagonisti e seguire quelle domande di vero, di bello e di giusto che li ha spinti a fare una fatica immane e gratuita per aiutare gli altri.

Questi ragazzi hanno fatto nascere in me (a scuola nel rapporto con loro accade spesso) nuove domande e fatto crollare tante certezze. Quello che sicuramente è emerso da questa esperienza dell’alluvione è che stanno loro stretti programmi da finire, interrogazioni e verifiche, cioè una scuola che non sia legata alla vita. Quando questo legame tra educazione e vita c’è, allora tutto diventa più interessante, anche andare a spalare del fango tutto il giorno. È utile innanzitutto fermarsi e trattenere ciò che di drammatico ma anche di bello abbiamo vissuto, per poi rilanciare questi ragazzi in luoghi che li educhino a questa ricetta di bello, bene e giusto.

Io ho invitato il mio alunno alla vacanza estiva con i ragazzi di Gioventù Studentesca. Ripartiamo da questo slancio di bello, vero e giusto in questi ultimi giorni di scuola, altrimenti avremmo perso un’altra occasione di crescita per noi e per loro e la scuola tornerà ad essere quel luogo triste lontano dalla vita, dalla strada e dal fango.

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