Mentre sulle spiagge italiane i jukebox ripetevano all’infinito le canzoni più gettonate del momento, Abbronzatissima e Sapore di sale, nell’estate del 1963, proprio 60 anni fa, la scuola italiana si preparava a una storica svolta: abbandonare il modello scolastico selettivo ed elitario tracciato dal ministro Giovanni Gentile con la riforma del 1923 (e appena ritoccata da Bottai nel 1940) e intraprendere una nuova stagione all’insegna del principio di eguaglianza scolastica, a partire dai ragazzi tra gli 11 e i 14 anni. La creazione della scuola media unica approvata dal Parlamento nel dicembre 1962 cancellava infatti la tripartizione degli istituti preesistente (la scuola media con il latino, la scuola di avviamento al lavoro e il triennio delle classi post-elementari) e prevedeva un’unica modalità di frequenza.



La riforma giungeva al termine di un acceso dibattito che aveva visto battagliare i sostenitori della scuola media con il latino obbligatorio e quanti, invece, ritenevano che una scuola destinata a tutti i preadolescenti non poteva restare prigioniera di un omaggio più formale che sostanziale alla tradizione classicista del nostro Paese.



Non erano inoltre mancati anche quanti erano convinti che dovessero e potessero coesistere due tipologie di scuole, prevedendo a fianco del triennio medio anche un ciclo scolastico di tipo post-elementare. Questa soluzione sembrava più coerente con la doppia Italia che persisteva a metà secolo scorso nel nostro Paese: un’Italia abbastanza scolarizzata e, specie al Nord, già sulla via di una forte industrializzazione, ed un’Italia dei piccoli borghi, ancora rurale, fortemente legata alle tradizioni, che mentre si riconosceva pienamente nel maestro elementare nutriva timore e diffidenza verso il “signor professore”, percepito come espressione di una cultura “altra” rispetto a quella che si respirava nei ceti popolari.



Questa coraggiosa riforma, voluta dalla Democrazia cristiana dietro le pressioni dell’associazionismo cattolico, e condivisa dal Partito socialista nel nuovo contesto della svolta di centrosinistra che nel frattempo si era insediato al governo, guardava al futuro del Paese non solo in termini di una piena coerenza dell’istruzione fino al 14esimo anno con il principio costituzionale, ma anche con un occhio attento alle necessità di disporre di una forza lavoro più preparata e pronta a integrarsi nei cambiamenti tecnologici che già si intravvedevano.

L’attuazione della nuova scuola media non fu tuttavia facile e richiese tempo per entrare a regime. Mancavano nei centri minori i locali e le attrezzature necessarie, ma soprattutto mancavano i docenti. Per colmare il deficit furono ingaggiati farmacisti, veterinari, commercialisti, ingegneri, avvocati, laureati disoccupati che, senza alcuna specifica preparazione, si unirono a numerosi studenti universitari che, ancor prima del conseguimento della laurea, si trovarono in cattedra.

Sotto il profilo pedagogico e organizzativo la questione di maggior rilievo fu la gestione della disomogeneità della docenza e cioè come far collaborare i professori reduci dell’antico ginnasio inferiore di gentiliana memoria (ancora in servizio) e gli spaesati insegnanti più o meno improvvisati che erano stati inviati nella trincea della nuova scuola. Questa difficile convivenza ne rese complessa la vita quotidiana e spesso inizialmente determinò un approssimativo raggiungimento delle finalità indicate dal legislatore. Questo aspetto è stato poco esplorato e in genere sottovalutato dalla storiografia, che ha invece sopravvalutato la gran messe pamphlettistica che denunciava i limiti del nuovo modello scolastico (ritenuto ancora troppo simile alla vecchia scuola media), talvolta con qualche ragione, ma più spesso in seguito ad analisi che non tenevano conto della difficile realtà quotidiana.

Un riverbero di questa incomprensione si registra tuttora in gran parte della memorialistica apparsa più o meno recentemente, che mitizzando alcune delle esperienze realizzate da chi pensava che la nuova scuola dovesse svolgere un’azione radicale in nome dell’equità, ha finito per restituire soltanto parzialmente un passaggio storico andato a buon fine grazie, invece, soprattutto all’attività equilibratrice delle élite associative e sindacali (ancora esterne al sindacalismo confederale), affiancate dai pedagogisti più avveduti e da quella parte dell’editoria che seppe rapidamente fornire agli allievi nuovi testi. Gli uni gli altri unirono le forze per procedere con gradualità e prudenza e contrastare le spinte di chi, in nome di un frettoloso radicalismo, avrebbe voluto trasformarla in una scuola antisistema (il mito della vera scuola se concepita come “controscuola”).

Nonostante le critiche la nuova scuola manifestò in poco tempo i suoi positivi effetti. Nel 1967, dopo il primo completo ciclo di funzionamento, il tasso di scolarità tra gli 11 e i 14 anni raddoppiò rispetto a pochi anni innanzi e, per la prima volta, i dati indicavano che le differenze di frequenza tra le diverse zone del Paese (in precedenza assai vistose), erano ormai quasi annullate e infine che la scolarità femminile, per quanto ancora inferiore a quella maschile, era in netto e costante aumento.

Ma nonostante i risultati positivi la scuola media unica (oggi frequentata pressoché al 100% degli allievi in età di obbligo) si portò dietro una immagine problematica e talora ingiustamente negativa purtroppo ormai entrata – come si dice oggi – nella narrazione corrente, che la descrive come il cosiddetto “anello debole” del sistema scolastico.

Da Pasolini a don Milani, dalle critiche sessantottine alla graduale perdita della funzione orientativa che era stata posta come finalità primaria fino al malessere che si respira oggi nelle aule affollate da preadolescenti infinitamente più smaliziati e informati di quelli di qualche decennio orsono, i punti di fragilità sembrano sovrastare quello che ha realmente e virtuosamente rappresentato la scuola secondaria di primo grado (così rinominata nel 2003): il tassello iniziale di quella scuola inclusiva che costituisce uno degli obiettivi principali  del ciclo formativo di base, secondo alcuni addirittura la trave portante del destino della scuola italiana.

Da più parti ci si sta interrogando se non sia il caso di porre mano a questo segmento scolastico, ripensandolo alla luce anche del fatto che il limite dell’obbligatorietà formativa fino al 14esimo anno è stato da tempo superato. Ma al momento non c’è traccia di un piano riformatore su cui avviare la discussione politica, ci sono solo riflessioni serie e ricerche utili (ad esempio il Rapporto 2011 della Fondazione Agnelli) ancorché finora restate negli scaffali delle biblioteche.

Tutto sembra fermo alle ipotesi formulate 20 anni fa: agganciare il triennio medio all’istruzione primaria, come prospettava il progetto Berlinguer-Vertecchi e come porterebbe a pensare la successiva moltiplicazione degli istituti comprensivi? Oppure pensarlo piuttosto, pur nella sua autonomia, con lo sguardo rivolto ai successivi livelli d’istruzione secondaria, come indicava il piano di Moratti-Bertagna del 2003? Entrambe le tesi riprese e contrapposte, ad esempio, nei saggi di Cesare Cornoldi e di Giorgio Israel raccolti nel volume del 2015 dal provocatorio interrogativo Abolire la scuola media? Il governo al momento appare impegnato su altri fronti. La tormentata storia della scuola media unica sembra non finire.

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