Funes, o della memoria è un racconto fantastico e amaro in cui J.L. Borges mette in scena una delle sue finzioni sul tema della memoria. La storia, ambientata in Uruguay a fine Ottocento, narra di un giovane di nome Ireneo Funes cui capita un fatto prodigioso: viene investito da un cavallo, riporta una lesione che lo costringe paralizzato a letto, ma, al risveglio, scopre che la sua memoria è in grado di ricordare perfettamente qualsiasi cosa, presente o passata; anche la sua percezione del mondo presente è potenziata fino a cogliere ogni minimo dettaglio del reale. Fino a prima dell’incidente Ireneo “era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (…) Per diciannove anni aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto, o quasi tutto”. Ma al risveglio, riacquistati i sensi “il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e più banali; (…) ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili”. Il cambiamento è radicale:
“Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata di un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. (…) Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva in cielo”.
Altro che memoria fotografica, altro che realtà “aumentata”: a Funes si spalanca finalmente il reale nella totalità dei suoi fattori. Che fortuna! Ricordarsi e avere contezza di tutto, limitless: il sogno di ogni studente, di ogni viaggiatore, di ogni smemorato amante…
Eppure, nota il narratore, quello che sembrava un dono si rivela una condanna: “Aveva imparato l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes, non c’erano che dettagli, quasi immediati”. Ecco il vero prezzo da pagare: ricordare tutto allo stesso modo trasforma la realtà di Funes in un catalogo di dettagli. La sua memoria è in grado di registrare solo singolarità e non concetti: è la morte non solo del pensiero, ma anche della gioia e del dolore del conoscere che si realizza nel cogliere i nessi tra le cose. Se tutto è un dettaglio, niente ha più significato. Ireneo morirà in solitudine, quasi perso nel mondo infinito e pesantissimo dei suoi ricordi.
Non basta quindi essere delle pellicole sensibili alla totalità dei fattori della realtà per conoscere davvero, per iniziare a “pensare”. Pensare è leggere dentro la realtà (intus-legere) il suo significato, non catalogarla in tutti i suoi particolari. Eppure, la apatia che caratterizza i procedimenti mentali di Funes non può essere sconfitta in modo altrettanto meccanico, con uno sforzo razionale.
Una buona indicazione su cosa voglia dire conoscere l’ho paradossalmente trovata in un testo di Roland Barthes, La camera chiara, in cui il semiologo francese si interroga, a posteriori, sulla natura del fascino che certe foto (e non altre) esercitano su di lui. Barthes rileva due elementi del suo interesse per la fotografia. Il primo lo chiama studium, poiché si realizza come una “applicazione a una cosa”, un “gusto per qualcuno” che è però “senza particolare intensità”. È un interesse in cui però nulla colpisce davvero, nulla cioè ferisce lo spettatore. La molla che fa scattare la vera conoscenza è qualcosa che infrange “l’omogeneità” dello studium. Si tratta della vitale presenza, nell’oggetto di studio, di un elemento non ricercato intenzionalmente, ma che accade: “Non sono io che vado in cerca di lui (…), ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge. In latino, per designare questa ferita, questa puntura, questo segno provocato da uno strumento aguzzo, esiste una parola; (…) punctum; infatti punctum è anche: puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo taglio – e anche impresa aleatoria. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che, in essa, mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)”.
Lo studium, “vastissimo campo del desiderio noncurante” è (nell’accezione di Barthes) nell’ordine dell’”I like/I don’t”, mentre il punctum appartiene a quello del “to love”: il puncutm colto in una immagine è in grado di proiettare così “il desiderio al di là di ciò che essa dà a vedere”. Barthes non trova parola più adeguata per descrivere il processo della conoscenza che la parola “avvenimento”: solo l’avvenimento di questa ferita spinge il desiderio oltre l’oggetto di studio e innesca una vera “avventura” della conoscenza.
Nelle riflessioni di Barthes sulla fotografia c’è dunque, mi pare, l’antidoto al ricatto funesto dell’esaustività insito nella finzione di Funes, e l’orizzonte si spalanca alla vertiginosa percezione che la conoscenza abbia a che fare con una ferita, qualcosa che smuove il nostro essere nel punto più vivo della nostra coscienza. Senza la presenza di un soggetto ferito – quindi desiderante – anche lo spettacolo di un cielo stellato infinito resterebbe muto.
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